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Film e libri sulla Shoah: percorsi didattici
A cura di Alessandra Minerbi, con la collaborazione di Anna Sarfatti e Matteo Collotti. Gennaio 2011
Ultimo aggiornamento, febbraio 2019
In occasione del Giorno della Memoria molti insegnanti si trovano a dover pensare a proposte didattiche, proiezioni di film, letture di brani, che offrano ai ragazzi qualche spunto di riflessione sulla Shoah e su ciò che essa ha significato nella storia italiana ed europea. Per questo, a supporto degli insegnanti, proponiamo qui una scelta ragionata di film e libri di narrativa sulla Shoah, pensata in particolare per gli studenti, dalla scuola primaria alla secondaria di secondo grado. Per ogni libro o film è stata preparata una scheda di lavoro che ne comprende la trama e caratteristiche salienti, l'età minima degli studenti (indicativa) ed un percorso didattico. Quest'ultimo si articola in uno o più itinerari di lavoro che prendendo spunto da alcuni aspetti significativi li metta a confronto con altri libri e film, in modo da poter dare ai ragazzi un quadro quanto più poliedrico e vario che metta in luce analogie e differenze, faccia riflettere su specifici nodi storici ed umani, sulla tipologia dei testi e dei film, sulle vicende dei singoli e sul contesto generale.
I testi proposti sono di varia natura, noti e meno noti: dal Diario di Anne Frank alle memorie autobiografiche (Primo Levi ed Elie Wiesel per esempio) ma anche romanzi e racconti che, pur ispirandosi a fatti veri, sono stati scritti da chi appartiene "alla seconda generazione" ovvero da coloro che non hanno vissuto quegli anni in prima persona - ad esempio Il bambino con il pigiama a righe di Boyne, autore di uno dei libri più fortunati di questi ultimi anni. Analogo discorso vale per i film: i registi dei film di maggiore successo di questi anni come Steven Spielberg o Roberto Benigni, "rappresentano" quella vicenda, ognuno secondo la sua sensibilità, senza però averla vissuta. Le immagini proiettate non costituiscono LA verità storica, ma una sua interpretazione e rilettura. Non è questa la sede per affrontare la complessa questione del "passaggio del testimone", è bene però almeno sottolineare che si deve sempre fare attenzione a distinguere fra "documento storico" e "rappresentazione" del passato, l'esegesi delle fonti è insomma un lavoro di riflessione che è sempre importante proporre ai ragazzi.
I testi scelti riguardano la persecuzione degli ebrei nelle varie forme in cui si manifestò negli anni del fascismo, del nazismo e della seconda guerra mondiale; si è però deciso di inserire anche testi che affrontano in senso più ampio la politica razziale del nazismo nella convinzione che non è possibile capire lo sterminio degli ebrei se non lo si colloca nel più ampio contesto storico ed ideologico nel quale venne realizzato. I percorsi proposti, viceversa, restano tutti "interni" alle tematiche affrontate, non si suggeriscono confronti con altre situazioni di persecuzione e repressione presenti e passate, non perché non le si considerino suggestioni valide, ma perché su tali tematiche entrano in gioco considerazioni didattiche complesse, legate ai percorsi scolastici individuali, alle sensibilità degli insegnanti, al livello della classe. L'idea iniziale da cui si è partiti - offrire un aiuto concreto agli insegnanti nell'elaborazione di proposte didattiche per il Giorno della Memoria - vuole mettere al centro del percorso la ragione stessa per cui il Giorno della Memoria è stato istituito, salvaguardandone la dimensione specifica ma anche facendone un'occasione di riflessione e dibattito più ampio. Siamo convinti infatti che più della sterile commemorazione del tragico passato, sia utile agli studenti la riflessione su analogie e diversità, continuità e discontinuità, così da offrire un insegnamento che lasci qualche traccia (non soltanto emotiva) e contribuisca a farli diventare cittadini consapevoli e responsabili.
INDICE
Film
Amen., regia di Costantino Costa Gavras, Francia, 2002 Concorrenza sleale, regia di Ettore Scola, Italia, 2001 Dottor Korczak, regia di Andrzej Wajda, Polonia, Germania, Francia 1992 Jona che visse nella balena, regia di Roberto Faenza, Italia-Francia Arrivederci ragazzi, regia di Luis Malle, Francia, 1987 Il pianista, regia di Roman Polansky, 2002, Regno Unito, Francia, Polonia Rosenstrasse, regia di Margarethe von Trotta, Germania, 2003 Train de vie, regia di Radu Mihaileanu, Francia, Belgio, Romania, 1998 Rosenstrasse, regia di Margarethe von Trotta, Germania, 2003 La chiave di Sara, regia di Gilles Paquet-Brenner, Francia, 2010
Letture
Anne Frank, Diario, I ed. 1947, I ed. critica italiana, Einaudi, Torino 2002 Jona Oberski, Anni d'infanzia, I ed. 1977, I ed. it. La Giuntina, Firenze 1997 John Boyne, Il bambino con il pigiama a righe, I ed. 2006, I ed. it. Rizzoli, Milano 2007 Wlatlyslaw Szpilman, Il pianista. Varsavia 1939-1945, I ed. 1946, I ed. it. Baldini e Castoldi, Milano 1999 Joseph Joffo, Un sacchetto di biglie, I ed. 1973, I ed. it. Rizzoli, Milano 1978 Fred Uhlman, L'amico ritrovato, I ed. 1971, I ed. it. Feltrinelli, Milano 1986 Elie Wiesel, La notte, I ed. 1954, I ed. it. La Giuntina, Firenze 1980 Art Spiegelmann, Maus, I ed. 1986-1991, I ed. it. Einaudi, Torino 2000 Paul Dowswell, Ausländer, I ed. 2009, I ed. it. Feltrinelli, Milano 2010 Primo Levi, Se questo è un uomo, I ed. De Silva, 1947, ristampe successive Einaudi, Torino Helga Schneider, Stelle di cannella, Salani, Milano 2002 Luciana Nissim Momigliano, Ricordi della casa dei morti, La Giuntina, Firenze, 2009 Lia Levi, Una Bambina e basta, Edizioni e/o 1994 Elie Wiesel, Le due facce dell’innocente, Garzanti, 2012 Kathy Kacer, Un posto sicuro, Giunti Junior, 2009 Klaartje de Zwarte-Walvish, Tutto è in frantumi. 1943 Diario di un’ebrea olandese, Guanda, 2012 Eric Heuvel, Ruud van der Roi, Lies Schipper, La stella di Esther, De Agostini, 2009 Judith Kerr, Quando Hitler rubò il coniglio rosa, Rizzoli, 2008 Robert Muller, Il mondo quell’estate, Mondadori, 2012 Lia Levi, La notte dell'oblio, edizioni e/o 2012 Teresa Buongiorno, Io e Sara, Roma 1944, Piemme 2003 Uri Olev, L'isola in via degli uccelli, Salani 2009
Amen., regia di Costantino Costa Gavras, Francia, 2002
Da 13 anni
Kurt Gerstein, ufficiale delle SS, lavora presso l’ufficio di igiene e durante la guerra viene incaricato di trovare un sistema per purificare l’acqua ed evitare la diffusione del tifo fra le truppe. Egli mette a punto un sistema che prevede l’utilizzo del Zyklon B che ben presto viene utilizzato anche per sterminare gli ebrei nelle camere a gas. Dopo aver scoperto l’utilizzo che viene fatto del gas Gerstein – fra i pochissimi uomini dell’apparato di potere nazista ad aver personalmente assistito alla morte per asfissia di alcuni ebrei – decide che non può tacere e che deve denunciare l’orrore di cui è a conoscenza. Gerstein ha un profondo attaccamento al suo paese, è convinto che la maggioranza della popolazione taccia e approvi il regime nazista solo perché non ne comprende fino in fondo la natura.
Nelle prime scende del film si assiste all’operazione eutanasia nel corso della quale centinaia e centinaia di portatori di handicap vennero uccisi dal regime perché indegni di vivere. Quel massacro venne fermato anche dalla proteste della chiesa cattolica che levò pubblicamente la sua voce. Gerstein è convinto che se il papa fosse a conoscenza dell’eccidio degli ebrei il suo intervento sarebbe altrettanto convinto ed appassionato. Comincia così la sua lunga lotta per essere ascoltato dalle alte sfere ecclesiastiche, ma egli si scontra sempre con silenzio ed incomprensione. L’unico ad ascoltarlo e a condurre con lui questa lotta contro l’indifferenza è il prete gesuita Riccardo Fontana che fa di tutto per essere ascoltato dal pontefice. Entrambi incontrano però soltanto l’invito alla pazienza, alla moderazione, all’attesa. Il vero cristiano, questa è la risposta ufficiale, sa sopportare in silenzio e la lotta contro il nemico comunista è in quel momento prioritaria rispetto a qualunque altra battaglia. Altre figure politiche che Gerstein e Fontana cercano di sensibilizzare dimostrano analoga convinzione sulla necessità di concentrarsi prima di tutto su altri scopi prioritari: nel loro caso la fine della guerra. In un ultimo disperato tentativo di ascolto Gerstein si reca a Roma proprio nel momento in cui i nazisti stanno compiendo la retata del 16 ottobre 1943 e può vedere in prima persona la duplicità dell’atteggiamento del Vaticano: pur continuando a tacere pubblicamente, molta parte del clero si adopera per nascondere ed aiutare gli ebrei. La lotta che i due portano avanti è destinata a fallire: Fontana parte con i deportati romani e muore nel campo di sterminio, Gerstein non viene creduto dagli Alleati al momento della liberazione e si impicca nella sua cella. Nell’ultima scena un alto funzionario delle SS fra i principali responsabili della Shoah si reca in Vaticano dove gli viene promesso aiuto per partire per l’Argentina: la compromissione della chiesa, questo il messaggio finale del film, non smette neppure quando la guerra finisce e l’orrore della Shoah viene reso noto a tutti.
Percorsi didattici
Nonostante alcune ingenuità storiche e alcuni passaggi un po’ lunghi il film offre molti spunti di riflessione. Gerstein rappresenta il nazista convinto, profondamente amante del suo paese ma anche desideroso di rimanere fedele ad alcuni principi di umanità e giustizia che il nazismo non condivide. Fontana, nella sua lacerante lotta per essere ascoltato, è la voce di tutto il clero che deve da un lato ascoltare la voce della propria coscienza e dall’altra l’autorità episcopale. Il conflitto nel quale i due si lacerano consente di affrontare la questione della responsabilità individuale di fronte a scelte così radicali e nello specifico di porre il problema dell’atteggiamento del Vaticano e dei paesi alleati durante la seconda guerra mondiale. L’orrore dello sterminio non è mai rappresentato, ma solo lasciato intuire dal dramma che Gerstein vive dopo averlo visto e dai treni che, interrompendo la narrazione del film, compaiono sullo schermo percorrendo l’Europa in tutta la sua lunghezza con il loro carico di morte.
Pur trattandosi di un tema difficile e delicato si può confrontare il film con altri libri e film che rappresentano il lato migliore della chiesa in questi anni, i tanti conventi e collegi religiosi che offrirono aiuto e ospitalità: Io e Sara. Roma 1944 (L); Arrivederci ragazzi (F).
Un altro punto di vista interessante è quello della vita in Germania durante la seconda guerra mondiale: le famiglie dei nazisti “che contavano” se la passavano assai bene nonostante la guerra, la fame, i bombardamenti. Situazione analoga emerge anche da Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (L) e Ausländer (L).
“Cosa si sapeva della Shoah” è un’altra complessa e delicata questione che emerge da questo film, certo è che molti sapevano fra le alte gerarchie politiche in Germania e all’estero, molti sapevano in Vaticano. Tale questione emerge abbastanza indirettamente in altri film e libri quali ad esempio Ausländer (L), Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (L), Train de vie (F), Rosenstrasse (F), ma può essere interessante tematizzarla. (Alessandra Minerbi)
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Anne Frank, Diario, Iª ed. 1947, Iª ed. critica italiana, Einaudi, Torino 2002
Da 12 anni
Anne Frank nasce nel 1929 a Francoforte sul Meno, secondogenita di una famiglia di ebrei tedeschi che vivono in Germania da molte generazioni. Nel 1933, con l’ascesa al potere di Hitler, il padre di Anne, Otto Frank, comincia a prendere in considerazione la possibilità di trasferirsi all’estero con tutta la famiglia. Riesce nel corso del 1933 ad avviare una nuova attività commerciale ad Amsterdam e così tra la fine del 1933 e l’inizio del 1934 si fa raggiungere dalla moglie e le figlie e per i Frank inizia una nuova vita libera e serena.
Dopo lo scoppio della guerra e l’occupazione nazista dell’Olanda una serie di leggi antisemite limita in modo sempre più capillare le libertà degli ebrei: Anne e la sorella devono frequentare una scuola ebraica, tutti gli ebrei sono schedati, non possono prendere i mezzi pubblici o andare al cinema; dal maggio del 1942 tutti devono portare ben visibile una stella gialla. Il 5 giugno 1942 la sorella Margot riceve una convocazione per andare a lavorare in un campo in Germania, i genitori già convinti che la vita in clandestinità fosse l’unico modo per sopravvivere, decidono di accelerare i tempi per trasferirsi in un alloggio segreto. Il 12 giugno, giorno del suo compleanno, Anne riceve in dono un diario sul quale comincerà ad annotare tutte le sue riflessioni; nei primi mesi Anne descrive una vita ancora relativamente normale per una ragazza della sua età: la scuola, le uscite con i compagni nei pochi luoghi di ritrovo ancora concessi agli ebrei, le amicizie, ecc.
Il 9 luglio 1942 la famiglia Frank si trasferisce nell’alloggio segreto che è stato trovato in Prinsengracht 263, nella parte non utilizzata dalla ditta del padre Otto che continua la sua attività. La settimana dopo arriverà si aggiungerà ai Frank la famiglia van Pels composta da madre, padre e il figlio Peter e dal novembre si aggiungerà un ottavo inquilino, Fritz Pfeffer. La vita nell’alloggio è possibile soltanto grazie alla solidarietà e all’aiuto di coloro che quotidianamente procurano cibo e lo stretto necessario alle persone nascoste, raccontano quello che accade al di fuori delle quattro mura, corrono quotidianamente essi stessi il pericolo di essere arrestati per la loro solidarietà.
Per i poco più di due anni di vita clandestina il diario di Anne è un documento prezioso sui suoi stati d’animo, le sue paure e le sue gioie, le sue angosce e le sue riflessioni, ma anche più in generale su cosa voglia dire vivere temendo ogni istante di essere scoperti, vivere sapendo che fuori infuria una guerra terribile di cui si seguono quotidianamente le vicende alla radio.
In questi due anni Anne si trasforma e matura passando per le ansie, le contraddizioni, le fatiche di un’adolescenza atipica, costretta al confronto e allo scontro quotidiano con una madre da cui non si sente capita e accolta, con una sorella con cui non riesce a stabilire una reale e profonda confidenza “Papà, mamma e Margot in questi momenti mi lasciano del tutto indifferente, vago da una stanza all’altra, salgo e scendo le scale e mi sento come un uccello a cui siano state brutalmente strappate le ali e che va a sbattere contro le sbarre della sua gabbietta nell’oscurità più totale” (29 ottobre 1943) . La mancanza di spazio e di libertà sono un assillo continuo, pur nella consapevolezza di quanto sia grande la fortuna di avere almeno l’alloggio segreto “Parlare, essere libera, avere amici, essere sola. Vorrei tanto…piangere! Mi sembra di scoppiare e so che se piangessi starei meglio; ma non posso farlo” (12 febbraio 1944).
Angoscia per il presente e speranze per il futuro si mescolano continuamente, la speranza che tutto un giorno possa essere dimenticato e la consapevolezza che si sta assistendo ad una delle più grandi tragedie della storia, di cui certo si ignorano nel dimensioni, ma di cui si ha comunque in qualche misura notizia. “Non riesco a immaginare che il mondo per noi potrà mai tornare normale. Parlo di ‘dopo la guerra’, ma è come se parlassi di un castello in aria, di qualcosa che non potrà mai trasformarsi in realtà” (8 novembre 1943); “Continuo a chiedermi se non sarebbe stato meglio per tutti che non ci fossimo nascosti, e adesso fossimo morti senza dover soffrire tanto e soprattutto per salvaguardare gli altri. Ma anche questo ci spaventa tutti, amiamo ancora la vita, non ci siamo ancora dimenticati della voce della natura, speriamo ancora, speriamo per tutto…” (26 maggio 1944)
Regolarmente dall’esterno arrivano notizie di amici e conoscenti arrestati e deportati verso est, già il 9 ottobre del 1942 Anne scrive di aver sentito alla radio dell’esistenza delle camere a gas.
Ogni notizia positiva sull’andamento della guerra apre uno spiraglio per il futuro, la speranza che la guerra finisca presto e che la vita possa tornare a scorrere normalmente. Anne non ha dubbi sul fatto di voler prendere la cittadinanza olandese, la Germania è un paese con cui sente di aver rotto ogni legame, la stessa lingua tedesca, lingua madre di tutti coloro che abitano nel rifugio, è lì bandita.
Il 9 agosto 1944, certamente a causa di qualcuno che ha denunciato il nascondiglio, la polizia irrompe nell’alloggio segreto deportando tutti i suoi abitanti prima al campo di transito di Westebork e poi ad Auschwitz. L’unico a sopravvivere sarà Otto Frank, padre di Anne, che al ritorno scoprirà il diario della figlia e ne curerà la pubblicazione e la diffusione.
Percorso didattico
Quasi tutti gli studenti italiani hanno letto almeno un paio di pagine del Diario, presente in tutte le antologie, più nelle unità didattiche dedicate al diario che non a quelle dedicate ai documenti storici. Un percorso possibile è quello che mette al centro della riflessione cosa voglia dire per una ragazza vivere in una situazione così difficile mettendo a confronto il diario con altri testi analoghi come per esempio l’Isola in via degli Uccelli (L) o Il pianista (L+F), in cui i protagonisti però non vivono nascosti in una casa ma in un ghetto. Vi sono dunque analogie e diversità che è opportuno mettere bene in luce.
Un’altra possibilità è un confronto fra diverse situazione di bambini ebrei, si può allora confrontare questo testo con altri libri che hanno bambini e ragazzi come protagonisti, pur in situazioni diverse: Stelle di cannella (L), Io e Sara (L), Un sacchetto di biglie (L), Anni d’infanzia (L).
Si può confrontare la vicenda di una ragazza che vive nascosta anche con il film Arrivederci ragazzi (F) in cui il protagonista vive una esperienza profondamente diversa, ma comune è la necessità di nascondersi rispetto al mondo circostante. Un ruolo di secondo piano nel testo, ma centrale per la sopravvivenza dei clandestini è quello giocato dalle persone che ruotano intorno all’alloggio segreto a rischio della propria stessa vita. Utile ausilio è il sito web ufficiale di Anne Frank che oltre ad avere una ricostruzione dettagliata della biografia di Anne offre molte immagini e documenti e una ricostruzione virtuale dell’alloggio segreto www.annefrank.org. (Alessandra Minerbi)
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Jona Oberski, Anni d’infanzia, Iª ed. 1977, Iª ed. it. La Giuntina, Firenze 1997
Da 11 anni
Jona che visse nella balena, regia di Roberto Faenza, Italia-Francia Da 13 anni
Breve autobiografia della tragica esperienza vissuta dall’autore durante la sua infanzia. Il passato è ricordato in modo sintetico e scarno, quasi un susseguirsi di brevi scene che si aprono su un’infanzia serena ad Amsterdam con il papà e la mamma. Dopo un primo arresto insieme alla mamma e la detenzione di una settimana nel campo olandese di Westerborck, Jona torna a casa e la vita sembra riprendere abbastanza tranquillamente anche se non mancano atti di antisemitismo da parte di altri bambini ed egli percepisce che la situazione intorno a lui sta peggiorando: la mamma non può più fare la spesa nel negozio di sempre, il papà è licenziato e tutti loro sono costretti ad uscire con la stella gialla cucita sui vestiti.
Dopo qualche tempo tutta la famiglia è di nuovo costretta a partire per Westeborck, qui nonostante si tratti di un campo di transito la vita quotidiana ha ancora una qualche parvenza di normalità: i bambini vanno a scuola e imparano l’ebraico nella convinzione di partire a breve per la terra promessa. Dopo un paio di settimane quasi tutti i detenuti – cui viene detto che stanno per partire per la Palestina - vengono deportati nel campo di Bergen Belsen dove Jona vivrà nella baracca con la madre fra la fame, la sporcizia e la promiscuità. Dalle memorie dell’allora bambino emerge soprattutto la difficoltà dei rapporti con gli altri ragazzini, quelli di poco più grandi, sempre pronti a insultare i piccoli e a provocarli chiedendo prove di coraggio ben difficili da dare. Un giorno Jona e la mamma sono chiamati nell’infermeria per assistere alla morte del padre. Per il bambino, attraverso i cui occhi è narrata tutta la vicenda, è quasi un passaggio di “status”. Considerato fino ad allora un bambino piccolo agli occhi degli altri ragazzi dopo aver visto un adulto morire viene “promosso” ma prima deve superare una prova di coraggio: resistere da solo nell’obitorio. Jona supera anche questa prova e dopo qualche tempo lui, la madre e molte altre persone vengono caricate nuovamente su un treno con la promessa di andare in Palestina, il viaggio dura due settimane e finisce quando i soldati russi raggiungono quelli tedeschi decretando così la fine della guerra e della detenzione. I deportati vengono tutti raccolti a Tröblitz dove la madre di Jona si ammala e dopo breve tempo muore. Assistito da un’amica di famiglia il bambino fa ritorno nella Amsterdam liberta e viene adottato dal signor Daniel, amico di vecchia data del padre.
Tutte le vicende vengono raccontate in tono breve e scarno, quasi non fossero state vissute da colui che scrive ma da qualcun altro. Questo tono così secco e asciutto contribuisce a fare del libro quasi una cronaca che però nella sua crudezza restituisce con estrema chiarezza la tragicità dell’esperienza passata da un bambino che all’epoca non aveva neanche gli strumenti per capire ciò che accadeva intorno a lui e che dopo la fine della guerra si trova completamente solo. Non vi sono cenni alla sua vita nel dopoguerra, se non la fatica iniziale a vivere come un figlio a casa del signor Daniel, la dedica “ai miei genitori adottivi che con me hanno dovuto patire non poco” lascia però intuire quanto possa essere stato difficile per Jona crescere con un passato così difficile alle spalle. Il film, fedelmente tratto da Anni d’infanzia , ripercorre l’infanzia di Jona prima ad Amsterdam e poi a Bergen Belsen. I due attori che fanno rispettivamente Jona bambino e poi ragazzino riescono con il loro struggente e doloroso sguardo a restituire in tutta la sua tragicità l’esperienza vissuta.
Percorso didattico
La sceneggiatura del film è molto simile al libro e dunque un primo confronto possibile è di tipo formale:il rapporto fra libro e film, i diversi linguaggi dell’uno e dell’altro.
Un possibile percorso riguarda la persecuzione attraverso gli occhi di un bambino, ben sottolineando le differenze fra chi deve vivere nascosto: Il diario di Anna Frank (L), chi deve fuggire e riesce a scampare al peggio: Un sacchetto di biglie (L).
Nelle ultime pagine emerge con chiarezza che la fine della guerra non significa la fine delle difficoltà e delle sofferenze, non soltanto perché dopo un’esperienza estrema come quella della deportazione la vita non potrà mai tornare ad essere quella di prima, ma anche perché Jona ancora piccolo si trova senza genitori. Questo tipo di riflessione - anche se dal punto di vista del figlio che riflette sul padre ormai adulto – è ben presente in Maus (L). (Alessandra Minerbi)
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Arrivederci ragazzi, regia di Luis Malle, Francia, 1987
Da 11 anni
Gennaio 1944, la seconda guerra mondiale, in corso già da quattro anni, sta volgendo lentamente a sfavore dei nazisti. La vicenda è ambientata in un collegio religioso di Fontainebleau, non lontano da Parigi, in una zona occupata dai nazisti già pochi mesi dopo lo scoppio della guerra.
Julien Quentin, ragazzo della ricca borghesia francese, dopo le vacanze natalizie del 1944 torna in collegio; la vita scorre nonostante tutto abbastanza normalmente: i ragazzi vanno a scuola, giocano, litigano. La guerra è sullo sfondo: la si intuisce soprattutto dalla fame dei ragazzi che si difendono con il mercato nero, dal coprifuoco che impedisce loro di andare liberamente nel bosco come erano abituati a fare, dagli allarmi aerei che costringono a nascondersi nel rifugio. I nazisti sono presenti al di fuori nel collegio: frequentano i luoghi pubblici, i ristoranti, ecc., ma non sembrano dare noia, ci sono buoni rapporti con la popolazione circostante.
Julien, tornato dalle vacanze, trova un nuovo compagno nella sua camerata, Jean Bonnet: l’ultimo arrivato viene accolto male, come spesso accade viene preso in giro, Julien gli si presenta dicendo “mi chiamo Julien e chi cerca rogne mi trova”, un modo chiaro per marcare il territorio. Poi però lui stesso viene attratto e incuriosito da questo ragazzo, bravissimo a scuola, come lui grande lettore, e comincia ad osservarlo e ad avvicinarglisi. Julien capisce che Jean nasconde qualcosa e lo tartassa di domande a cui lui risponde in modo evasivo; intuisce in Jean una diversità che non sa spiegare. Bonnet dice di essere di religione protestante, ma Julien capisce che nasconde qualcosa di più e una volta frugando fra le sue cose trova un libro con su scritto il vero nome di Jean, non Bonnet ma Kippelstein, dunque un ebreo nascosto sotto falso nome. Proprio la scoperta della verità permette ai due di diventare profondamente amici. Jean con Julien non è costretto a fingere, come avviene nelle vere amicizie, a lui dice di vivere continuamente nel terrore, racconta che il padre è prigioniero e che non lo vede da tre anni e che la madre e la zia vivono nascoste e non escono mai e anche di loro non ha notizie da mesi. Con gli altri Jean continua a fare di tutto per non fare notare la propria diversità cercando di uniformarsi anche esteriormente ai comportamenti degli altri.
Jean vive nel terrore, ma tutti in collegio e fuori sanno che i provvedimenti antiebraici sono in atto da tempo: gli ebrei non possono frequentare i luoghi pubblici, un ebreo viene arrestato in un ristorante sotto gli oggi di Julien e della sua famiglia venuta da Parigi per salutarlo. La presenza dei ragazzi ebrei nel collegio viene denunciata da un garzone della cucina che si vendica per essere stato licenziato. Jean Bonnet e gli altri ebrei che avevano passato quei mesi nascosti vengono portati via dopo una tragica perquisizione da parte dei nazisti. Anche Padre Jean – la figura di riferimento per tutti i ragazzi - che aveva accolto i ragazzi nel collegio ben sapendo che era vietato viene arrestato. Accogliendoli sotto falso nome egli compie consapevolmente una scelta contro il governo nazista e contro le sue leggi, la sua figura e il suo comportamento sono in assoluta antitesi con quelli dell’occupante. Egli vuole insegnare ai suoi ragazzi “a fare buon uso della libertà”, come dirà loro. Per lui libertà vuol dunque anche dire lottare contro l’oppressione, contro l’occupazione di un nemico, scegliere, a rischio della vita, di aiutare chi era in difficoltà.
Percorso didattico Il film più che porre l’accento sulla persecuzione degli ebrei durante il nazismo, pone l’accento sulla presa di coscienza reciproca, su come un non ebreo, al di là della propaganda che può aver sentito a scuola o in famiglia, scopre tutte le cose che lo uniscono a Jean. E questo è anche un paradosso della persecuzione: proprio nel momento in cui ormai da due anni si era stabilito che ebrei e non ebrei dovevano vivere separati si creano le condizioni per cui, in circostanze eccezionali, gli ebrei, fingendo di non esserlo, vivevano in mezzo agli altri cercando di assorbirne usanze e abitudini per mimetizzarsi
Il film può essere messo a confronto con A poco a poco il ricordo (L). Padre Jean che sceglie di nascondere tanti bambini ebrei nel collegio da lui diretto ben consapevole del pericolo che questo comporta è uno dei tanti rappresentanti del basso clero che si sono spesi in prima persona, a rischio della vita, per aiutare i perseguitati durante la seconda guerra mondiale. Per i ragazzi delle scuole superiori può essere interessante mettere a confronto questa vicenda con quella di Amen. (F) che viceversa mette in luce i colpevoli silenzi del Vaticano. (Alessandra Minerbi)
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Concorrenza sleale, regia di Ettore Scola, Italia, 2001
Da 12 anni
Il film è ambientato a Roma e la vicenda inizia nel febbraio del 1938. Protagonisti sono due negozianti, Leone della Rocca e Umberto Melchiori, il primo ebreo e il secondo no, proprietari di due negozi d’abbigliamento situati l’uno accanto all’altro e contrapposti da una forte concorrenza. I due vivono anche nello stesso palazzo e i figli maggiori Susanna e Paolo si amano e si frequentano, mentre i due figli piccoli, Lele e Pietruccio (voce narrante), vanno a scuola insieme e sono amici fraterni. In una Roma grigia dove gli scrosci di pioggia sottolineano i passaggi e i momenti più dolorosi, si svolge la vita quotidiana delle due famiglie fra dissapori e contrasti. Da una serie di dettagli e di informazioni che ben si inseriscono nella narrazione si delineano le caratteristiche del regime fascista: la necessità di non fare commenti a voce alta di fronte a uomini di sicura fede fascista, l’entusiasmo per la conquista dell’impero, l’epurazione delle biblioteche, la campagna contro il disfattismo. I tanti personaggi che si muovono sullo sfondo sembrano subire questo clima, la commessa del negozio di Melchiori è il prototipo dell’italiano che ha fatto proprie le parole d’ordine del regime senza neanche capirle fino in fondo, ma sempre ripetute per ossequio al potere. Angelo, fratello di Umberto e professore al liceo, sembra essere il solo a nutrire qualche dubbio espresso a voce alta sui principi del regime. Intanto la persecuzione antiebraica diventa legge: i professori e i bambini, e dunque anche il piccolo Lele, vengono allontanati dalle scuole, tanti professionisti sono costretti ad abbandonare la loro attività. Il giorno in cui la vetrina del negozio di della Rocca viene infranta da un sasso Melchiori capisce che la situazione sta precipitando e fra i due si instaura un nuovo rapporto di affetto e solidarietà. Ma le difficoltà per gli ebrei aumentano, della Rocca è costretto a chiudere il negozio e a trasferirsi a vivere in un quartiere più modesto con tutta la famiglia. Pietruccio, vedendo andare via il carro con la famiglia della Rocca stipata fra le masserizie commenta: “due che hanno bevuto insieme l’olio di fegato di merluzzo restano amici tutta la vita”. Purtroppo in molti casi non è andata così, e tante famiglie pur avendo condiviso percorsi e lunghe amicizie hanno voltato le spalle ai conoscenti ed agli amici ebrei: non solo non hanno avuto nei loro confronti gesti di solidarietà, ma hanno preferito far finta di non vedere e di non sapere.
Percorso didattico
La vicenda riguarda sostanzialmente due famiglie e come tale può essere inserita in un percorso didattico focalizzato sulla questione delle scelte dei singoli, sulle responsabilità che ciascuno ha nei propri comportamenti, su come il silenzio o la passiva accettazione possano avere conseguenze di estrema gravità. La figura di Umberto, certamente una delle più riuscite, incapace di prendere decisioni radicali, può essere occasione di molti spunti di analisi. Occorre però chiarire con maggiore forza di quanto non emerga dal film che molti accolsero con favore la legislazione razziale e più in generale che l’adesione al fascismo non fu soltanto mera adesione agli ordini superiori, come sembra di capire anche dalle scene in cui compare il commissario, semplice esecutore mai troppo partecipe, ma convinta adesione alla creazione dell’Italia fascista.
Se si decide di lavorare sulle scelte individuali si possono leggere alcuni testi in cui prevale questa tematica: L’amico ritrovato (L), Stelle di cannella (L). O si possono scegliere alcuni protagonisti positivi di altri libri quale padre Jean di Arrivederci ragazzi (F).
Si può anche – sempre restando sulla tematica delle scelte individuali ma ad un livello di maggiore complessità - confrontare questo film con Amen. (F) o Rosenstrasse (F). (Alessandra Minerbi)
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Dottor Korczak, regia di Andrzej Wajda, Polonia, Germania, Francia 1992
Da 13 anni
Il film affronta gli ultimi anni della vita di Janus Korczak, medico, scrittore e pedagogo ebreo polacco nato e vissuto a Varsavia.
La vicenda, ambientata a Varsavia, si apre con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Korzack, fondatore e direttore di un grande orfanatrofio, è costretto a trasferirsi, poco dopo l’invasione nazista, nel ghetto. Il film ripercorre le difficoltà quotidiane della vita durante l’occupazione: la lotta per trovare cibo e vestiti per i bambini, le violenze dei nazisti, lo scherno della popolazione del luogo, ma anche il grande sforzo umano e pedagogico che Korczak quotidianamente faceva per educare e sostenere gli orfani, per fargli comunque sperare che le cose in futuro sarebbero andate meglio, per non cedere al dolore e allo sconforto nei momenti di crisi. Grande pedagogista egli era convinto che i bambini dovessero essere protagonisti del proprio percorso educativo e di crescita e dovessero fin da piccoli assumersi le responsabilità delle loro azioni: all’interno dell’orfanatrofio nonostante le privazioni e la fatica quotidiana questi principi riuscivano a prevalere. Fuori da questo ambiente protetto ed ancora pieno di umanità il ghetto è devastato dalla violenza nazista: soldati armati girano e spadroneggiano ovunque, picchiano, uccidono. Korczak è molto critico nei confronti del Consiglio ebraico che a suo giudizio è troppo accomodante verso i nazisti e si scontra apertamente con il suo presidente Czerniakov, accusandolo di avere un atteggiamento troppo rinunciatario. Coerente fino all’ultimo egli rifiuta ogni offerta di salvezza che gli viene offerta, a nessuna condizione è disponibile ad andarsene da solo lasciando soli i suoi bambini.
Il 5 agosto 1942, quando arriva l’ordine di deportare tutti gli orfani, Korczak non esita un istante, pur avendo la possibilità di salvarsi, a salire sul treno insieme ai bambini. Con loro avrebbe trovato la morte nel campo di sterminio di Treblinka pochi giorni dopo.
Percorso didattico
Il film è la biografia degli anni più intensi della vita di Korczak cui Wajda vuole rendere omaggio per il suo coraggio e la sua abnegazione umana e civile. Come storia di vita può essere messa a confronto con quella di altri ebrei che si sono sacrificati per aiutare i propri correligionari o di altri Giusti che hanno messo a repentaglio la propria esistenza per salvare gli ebrei dalla persecuzioni Schindlers List (F) o può essere parte di un percorso che metta in luce la vita nel ghetto Il pianista (F+L), Il diario di Seriakov (L), Diario di Mary Berg (L), o le altre realtà dell’occupazione nazista come Arrivederci ragazzi (F)
Gli scritti pedagogici di Korczak sono disponibili anche in italiano e costituiscono una fonte interessantissima per lo sguardo lucido e originale sull’educazione dei ragazzi. (Alessandra Minerbi)
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John Boyne, Il bambino con il pigiama a righe, Iª ed. 2006, Iª ed. it. Rizzoli, Milano 2007
Il bambino con il pigiama a righe, regia di Marc Herman, USA, 2008
Da 11 anni
Bruno è un bambino di otto anni che vive a Berlino con il padre, la madre e la sorella. Il padre, uomo di potere e di successo nelle gerarchie del partito viene trasferito, come promozione per i suoi meriti, in un luogo non definito ad est e deve partire insieme alla famiglia. Bruno non è affatto felice di lasciare la sua bella casa, gli amici e le gioie dell’infanzia.
Quando arrivano nella nuova casa Bruno è profondamente infelice, non gli piace quel luogo isolato e senza amici, il padre gli spiega di essere un soldato che “deve rendere tutto migliore per tutti” e in nome di questa causa giustifica il suo agire. Pian piano Bruno capisce di essere arrivato in un luogo strano. Quegli ebrei che a Berlino egli non aveva mai incontrato e di cui sostanzialmente ignorava l’esistenza entrano prepotentemente nella sua vita prima di tutto attraverso il profondo antisemitismo che il tutore incaricato di educare lui e la sorella cerca loro di insegnare. Ma Bruno comincia anche a vedere ebrei di cui inizialmente ignora l’identità, pensa solo che siano persone strane, vestite male e che vivono in una strana struttura che lui chiama fattoria. La madre cerca di nascondergli la verità, gli dice che quelle persone in pigiama – con il pigiama a righe appunto - sono strane e diverse e che non deve avere contatti con loro. Ma Bruno è un bambino curioso e vivace e riesce a raggiungere il campo e conosce Shmuel un bambino che ha la sua età, ha il pigiama a righe e un numero scritto sopra e che vive dietro un filo spinato. Per Bruno, Shmuel è prima di tutto un amico con cui giocare e, sfuggendo alla sorveglianza dei genitori cerca di raggiungere il filo spinato che circonda il campo dentro cui è rinchiuso l’amico ogni volta che è possibile. Le visite al bambino diventano un importante punto di riferimento per lui, l’unico contatto con un coetaneo, e Bruno fa fatica a coniugare ciò che sente ogni giorno dire contro il pericolo ebraico e la simpatia per il bambino, tra il dover pensare che tutti sono cattivi in quanto ebrei e un ebreo in carne ed ossa che come lui vorrebbe giocare e divertirsi. Quanto più Bruno intuisce che il mondo intorno a lui è terribile, tanto più vorrebbe aggrapparsi alla certezza che suo padre non ne fa parte, non ne è corresponsabile. Ma illudersi e non scoprire la verità è difficile; la madre scopre per caso cosa succede davvero nel campo e, dopo una lite furibonda con il marito, decide di andarsene. Bruno vuole però assolutamente salutare il suo amico per l’ultima volta e poiché questi è preoccupato perché non trova più suo papà, Bruno promette di aiutarlo nella ricerca. Egli porta del cibo all’amico e lui in cambio gli dà un pigiama a righe indossando il quale Bruno può oltrepassare il filo spianto e cercare con Shmuel suo padre. Proprio in quel momento però arriva l’ordine di portare nelle camere a gas gli ebrei rinchiusi nel campo e così Bruno e Shmuel muoiono insieme soffocati mentre i genitori di Bruno, accortisi della fuga del bambino, non tardano a scoprire la tragica verità.
Il film è sostanzialmente fedele al libro.
Percorso didattico
Questo testo, così come il film, ha molti elementi di assoluta inverosimiglianza storica e dunque bisogna fare estrema attenzione nel presentarlo ai ragazzi. Il libro e il film possono essere il pretesto per avvicinare anche un pubblico abbastanza giovane non tanto alla Shoah in sé, ma allo sterminio degli ebrei visto attraverso gli occhi di un bambino. La scoperta di Shmuel e del suo mondo coincide con Bruno con la perdita dell’innocenza, la fine della cieca fiducia di ogni bambino nei confronti del padre. Essi possono poi viceversa essere confrontati con testi autobiografici che dunque realmente tratteggiano la situazione di bambini costretti a stare nascosti o a scappare continuamente Un sacchetto di biglie (L), Il diario di Anne Frank (L), o deportati nel Lager Anni d’infanzia (L+F) (Alessandra Minerbi)
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Wlatlyslaw Szpilman, Il pianista. Varsavia 1939-1945, Iª ed. 1946, Iª ed. it., Baldini e Castoldi, Milano 1999
Il pianista, regia di Roman Polansky, 2002, Regno Unito, Francia, Polonia
Da 13 anni
Autobiografia di Wlatlyslaw Szpilman – pianista e compositore polacco noto soprattutto nel secondo dopoguerra - che ha scritto le sue memorie subito dopo la fine della guerra più per se stesso – come scrive il figlio nell’introduzione – che per far conoscere agli altri la propria eccezionale esperienza. Pubblicato immediatamente dopo la guerra il libro non è stato ristampato fino alla fine degli anni ’90 quando un altro clima politico e culturale e, più tardi, il film di Polanski, hanno reso assai nota questa vicenda.
Szpilman vive con la famiglia a Varsavia e suona il pianoforte per la radio polacca. Dopo lo scoppio della guerra è costretto a sospendere la sua attività e nelle sue memorie descrive con crudo realismo il progressivo peggioramento della situazione: la fame che si impadronisce di buona parte della popolazione, la difficoltà di trovare un lavoro, la dura quotidianità in una città che dopo solo tre settimane si è arresa ai nazisti il cui trionfo pare non conoscere fine. Szpilman riesce a trovare lavoro come pianista in alcuni caffè ben sapendo però che scopo essenziale della sua musica è quello di dare una qualche parvenza di normalità alla vita quotidiana durante la guerra, non certo quella di essere ascoltata da un pubblico attento e sensibile.
Nel novembre del 1940 gli occupanti nazisti decretano l’istituzione del ghetto e l’obbligo per tutti gli ebrei di trasferirsi a vivere lì. In queste pagine sono descritte con particolare intensità le difficili condizioni di ogni giorno, il rincorrersi di notizie angoscianti e allarmanti seguite poi da smentite altrettanto vaghe e infondate; la fatica di andare avanti sapendo che i nazisti hanno in pugno la situazione e che la guerra sembra non avere mai fine. Quando hanno inizio le deportazioni il clima diventa ancora più teso: “Se penso a com’era la nostra vita in quei giorni e in quelle ore terribili mi viene solo un’immagine alla mente: quella di un formicaio minacciato. Quando il piede di un idiota comincia a distruggere sconsideratamente un formicaio con il suo tallone chiodato le formiche prendono ad agitarsi, cercando sempre più affannosamente scampo da ogni parte, un modo per salvarsi. Ma, sia perché paralizzate dalla subitaneità dell’attacco sia perché preoccupate del destino delle loro progenie e di riuscire a mettere in salvo quanto più possibile, invece di andare avanti e mettersi al riparo, come sotto un influsso malefico tornano a ripercorrere il cerchio mortale andando incontro alla morte, proprio come noi” (p.102).
Sia Wlatlyslaw che il fratello rifiutano con fierezza di entrare a far parte della polizia ebraica sostenendo di non voler avere niente in comune con chi, in qualche misura, collabora con i propri carnefici. Nell’agosto del 1942 arriva l’ordine di deportazione per tutta la famiglia Szpilman, solo una sorella Halina e il padre vengono dichiarati ancora abili al lavoro. La famiglia al completo si reca nel luogo di raccolta, la Umschlagplatz, un tempo importante luogo di incontro di Varsavia, adesso centro di raccolta e di smistamento. Wlatlyslaw assiste impotente e come in un sogno alla partenza di tutti i suoi cari: anche il padre e la sorella seguono gli altri, mentre lui rimane completamente solo. Inizia qui la parte più eccezionale della sua vicenda proprio perché adesso è venuto meno ogni legame familiare, ogni parvenza di normalità nella vita quotidiana. Egli vive per molti mesi di espedienti, facendo tutto ciò che gli è possibile per procacciarsi del cibo e entra a far parte di un’organizzazione clandestina ma non prende parte alla rivolta dell’agosto del 1943 perché ormai vive nascosto nella parte “ariana” della città da alcuni mesi. Nel periodo successivo, dopo che il ghetto viene raso al suolo, vivere diventa ancora più difficile, Wlatlyslaw è costretto a cambiare spesso nascondiglio e, dopo la rivolta di Varsavia, vive in una città fantasma, completamente distrutta, riuscendo a mangiare una volta ogni tanto. Un giorno, uscito come sempre a caccia di cibo e di acqua, incontra un ufficiale nazista che, venuto a sapere che egli era pianista, lo porta davanti ad un pianoforte ingiungendogli di suonare. Stanco, affamato, sporco e dopo più di due anni che non tocca la tastiera Wlatlyslaw suona quello stesso concerto di Chopin che aveva suonato prima che la radio per cui lavorava fosse distrutta dalle bombe naziste. L’ufficiale promette a Wlatlyslaw che gli porterà lui da mangiare e mantiene la parola portandogli cibo e acqua nei giorni successivi fino a che non è costretto a fuggire alla liberazione di Varsavia da parte delle truppe sovietiche. Szpilman sopravvive nascosto ancora molti giorni e quando esce indossando un cappotto tedesco, rischia di essere fucilato come nazista. Nonostante le ricerche non riesce ad avere notizie dell’ufficiale cui probabilmente deve la vita e del quale non aveva voluto neppure sapere il nome per paura di poterlo tradire in caso di arresto e tortura. La vita riprende e Szpilman comincia la sua lunga carriera di pianista e compositore.
Il film si basa fedelmente sul libro di Spzilman ed ha vinto un Oscar proprio per la sceneggiatura non originale. Tragico e potente il film rappresenta con straziante veridicità la vita degli ebrei a Varsavia durante la guerra.
Percorso didattico
La sceneggiatura del film è molto simile al libro e dunque un primo confronto possibile è di tipo formale: il rapporto fra libro e film, i diversi linguaggi dell’uno e dell’altro.
L’aspetto più interessante di questa autobiografia è la descrizione della vita a Varsavia durante la seconda guerra mondiale, cosa significa vivere in un ghetto, il rapporto con la popolazione che vive fuori dal ghetto e dunque un confronto possibile è con tutti i testi che descrivono la vita nel ghetto: L’isola in via degli Uccelli (L), Il diario di David Sierakowiak (L). Anche il Dottor Korzack (F) si svolge nel ghetto e fra l’altro Spzilman nelle sue memorie ricorda di aver visto Korzack nel ghetto un paio di volte, un interessante intreccio fra vicende di persone profondamente diverse.
Si può anche prendere in considerazione la situazione degli ebrei durante la guerra in paesi e realtà diverse: allora si può confrontare questa situazione con la vita degli ebrei nascosti in Olanda de Il diario di Anna Frank (L), dei protagonisti francesi di Arrivederci ragazzi (F) e Un sacchetto di biglie (L), costretti l’uno a fingersi non ebreo in un collegio, l’altro a scappare da un luogo all’altro insieme al fratello.
Il film restituisce molto bene il progressivo abbrutimento fisico e psicologico del protagonista e con ragazzi della scuola secondaria superiore è anche possibile affrontare la questione di come l’uomo affronta situazione estreme, allora si può confrontare questo libro anche con Se questo è un uomo (L), La notte (L), Ricordi della casa dei morti (L).
NB Il film ha molte scene piuttosto forti e per questo va visto da ragazzi abbastanza grandi, ma restituisce un’immagine della vita nel ghetto, della guerra e della distruzione che certamente fa capire in modo immediato e chiaro la situazione. (Alessandra Minerbi)
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Joseph Joffo, Un sacchetto di biglie, Iª ed. 1973, Iª ed. it. Rizzoli, Milano 1978 Da 11 anni
Joseph, bambino ebreo di dieci anni, vive a Parigi con i genitori e il fratello Maurice di poco più grande durante la guerra. L'occupazione nazista della città rende la situazione ogni giorno più pericolosa: si deve indossare la stella gialla, i bambini vengono allontanati dalla scuola, i compagni cominciano a insultarli pesantemente. I genitori, arrivati a Parigi dall'est Europa a seguito delle persecuzioni antisemite di inizio secolo, decidono nel 1942 di mandare i due bambini nella Francia ancora libera, dove già si sono stabiliti i fratelli maggiori. Comincia così un lungo e difficile viaggio per raggiungere Mentone dove i ragazzi arriveranno dopo aver affrontato molte situazioni rischiose ed aver spesso temuto per la propria incolumità. Qui vivono un breve periodo di serenità presto interrotto dall'occupazione da parte dei tedeschi. Joseph e Maurice riprendono le loro peregrinazioni, prima raggiungendo i genitori che erano nel frattempo riusciti a raggiungere Nizza, poi costretti ad una nuova fuga e dunque a una nuova separazione. Joseph in queste memorie autobiografiche, ripercorre la sua vicenda fino al ritorno a Parigi dopo la liberazione: la mamma e i fratelli sono sopravvissuti, il padre è stato arrestato nel corso di una retata ed è morto in deportazione. Molte sono le persone che hanno aiutato i due fratelli in questi anni difficili e pericolosi: un prete incontrato sul treno, amici conosciuti casualmente per strada, conoscenti del padre di antica data; la salvezza è stata possibile per una serie spesso casuale di colpi di fortuna e coincidenze. Quello che però permea il racconto è l'angoscia continua per la necessità di fuga, la consapevolezza che ogni attimo la sorte può cambiare e che se anche non si sa esattamente cosa l'arresto comporti, per tutti coloro che vengono arrestati non ci sono molte speranze di salvezza.
Il padre di Joseph aveva raccomandato ai bambini prima di lasciarli partire di non svelare mai quale fosse la loro identità, avrebbero dovuto sempre e comunque negare di essere ebrei. Alla domanda di Joseph su cosa davvero significhi essere ebrei il padre aveva però risposto con un silenzio imbarazzato. Neanche lui era riuscito a spiegare cosa ciò significasse davvero e ancor meno perché questo comportasse il rischio della vita. Quello che emerge da queste pagine è soprattutto la vicenda della persecuzione, della fuga, del pericolo attraverso gli occhi di un bambino che, come scrive l'autore alla fine, decide di raccontare la propria vicenda perché ne resti testimonianza prima di tutto ai propri figli.
Percorso didattico
Uno dei possibili filoni è quello della Shoah attraverso gli occhi dei bambini che hanno vissuto in prima persona questa vicenda: Anni d’infanzia (L), L’isola in via degli Uccelli (L),Una bambina e basta (L).
L’altro filone possibile, più complesso, è quello di riflettere fra memoria autobiografica e romanzo: Il bambino con il pigiama a righe (L), Stelle di cannella (L), libri sullo stesso tema che però non narrano la vicenda come diretta memoria degli autori.
Per quanto riguarda l’ intreccio con i film si può confrontare la fuga continua dei due fratellini con la vita che Jean conduce sempre in Francia ma nascosto in un collegio in Arrivederci ragazzi (F). (Alessandra Minerbi)
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Fred Uhlman, L’amico ritrovato, Iª ed. 1971, Iª ed. it. Feltrinelli, Milano 1986 Da 11 anni
Questo racconto lungo, ormai un classico, rimane un testo di riferimento fondamentale sull’avvento del nazismo in Germania e su come hanno reagito ebrei e non ebrei. Il giovane Hans, figlio di una famiglia della media borghesia ebraica, frequenta all’inizio degli anni ’30 il liceo a Stoccarda trascorrendo una vita assolutamente normale e piuttosto solitaria. Il padre, uno stimato medico, è ben integrato nella città in cui è nato e cresciuto, ha combattuto con convinzione per il proprio paese durante la prima guerra mondiale e frequenta raramente la sinagoga; insomma il prototipo dell’ebreo assimilato, fedele alla religione dei padri ma soprattutto al paese in cui è nato.
Un giorno arriva in classe di Hans un nuovo compagno, Konradin von Hohenfels, rampollo di una nobile famiglia. Hans ne è subito profondamente attratto, ma sente anche tutta la distanza che separa il suo mondo da quello di Konradin. Fra i due piano piano nasce un’amicizia profonda e sincera, esclusiva e totalizzante come spesso i rapporti a quell’età; i due ragazzi passano insieme i pomeriggi dopo la scuola, vanno insieme a fare lunghe gite nei fine settimana condividendo letture e passioni. Il nazismo comincia intanto ad avere i suoi primi successi politici e naturalmente i due amici parlano anche di politica; Konradin non nasconde la sua ammirazione per Hitler, convinto che il nazismo riuscirà a portare ordine e sicurezza in Germania. Quello che sembra inizialmente soltanto un cambiamento lontano – che tocca Berlino e Monaco, ma non Stoccarda - comincia a riflettersi anche nella vita quotidiana. A scuola alcuni insegnanti cambiano, le accuse e i gesti antisemiti nei confronti di Hans diventano più numerosi ed egli si sente sempre più isolato, ma l’amicizia di Konradin gli è ancora sufficiente per non soffrire troppo. Dopo un po’ che si frequentano però Hans si rende conto di essere invitato in casa Hohenfels quando i genitori sono assenti e comincia a sospettare che non si tratti di un caso. Una sera all’opera incontra Konradin con la famiglia, ma questi fa finta di non vederlo e gli nega anche il saluto. Per Hans è un colpo terribile, sa perfettamente di essere stato visto e non può accettare un comportamento così ingiusto da parte dell’amico. Il giorno successivo gli chiede conto del mancato saluto e nella risposta di Konradin c’è la tragica realtà che Hans aveva già intuito senza il coraggio di prenderne completamente coscienza: “Mia madre non accetterà mai l’idea di conoscerti. Senza contare che è gelosa di te perché tu, un ebreo, hai saputo conquistare l’affetto di suo figlio. Secondo lei, il fatto che mi veda con te costituisce una macchia per il glorioso nome degli Hohenfels. E poi ti teme. E’ convinta che tu non solo abbia minato la mia fede religiosa, ma sia al servizio del giudaismo internazionale, il che per lei è come dire comunismo” (p.72). L’amicizia non può che finire, Hans stesso per non creare problemi all’amico lo evita: “Sapevo che il farsi vedere con me avrebbe costituito per lui motivo di imbarazzo e pensai che mi sarebbe stato riconoscente per la mia decisione. Ormai ero solo, nessuno mi rivolgeva più la parola” (p.81).
I genitori di Hans, di fronte all’incontrastata ascesa di Hitler, decidono di mandare il figlio negli Stati Uniti, nella convinzione che sarà solo per un breve periodo. Loro però decidono di rimanere, come spiega il padre al figlio “Questa è la nostra patria, la terra in cui siamo nati e a cui apparteniamo e non permetteremo che nessun bastardo austriaco ce la sottragga” (p.82); il legame con la Germania è troppo profondo per essere reciso.
Hans parte e da lontano segue le vicende del suo paese: Hitler è sempre più saldamente al potere e i suoi genitori hanno deciso di togliersi la vita piuttosto che morire a causa della politica antiebraica sempre più radicale. Egli rimarrà per sempre negli Stati Uniti dove si crea una nuova vita cercando di dimenticare il suo passato in Germania, la sua lingua madre e tutto quello che ha a che fare con il suo paese di origine. Un giorno, quando egli è ormai un avvocato di successo, riceve un bollettino del suo vecchio liceo che chiede una sovvenzione e non riesce a non leggere l’elenco dei nomi di tutti gli ex allievi. Molti di coloro che erano stati i suoi compagni di classe sono morti al fronte nel corso della seconda guerra mondiale. Konradin von Hohenfels è invece stato giustiziato per aver preso parte al complotto contro Hitler. Un amico dunque ritrovato, che aveva pagato con la vita il crollo delle sue illusioni nei confronti del nazismo.
Percorso didattico
Breve ed incisivo questo testo è ormai presente in molte antologie scolastiche.
E’ possibile analizzare il tema di come il nazismo, e più in generale un fattore esterno alla volontà dei protagonisti, incida sulla loro profonda amicizia confrontandolo con Stelle di cannella (L) in cui gli esiti sui due amici sono altrettanto dolorosi, mentre meno tragici sono in Io e Sara Roma 1944 (L). Nel film Arrivederci ragazzi (F), pur in un contesto diverso, è descritta un’amicizia che sembra trarre dalla difficoltà della situazione ulteriore linfa vitale.
La situazione della Germania nazista è tratteggiata brevemente, ma offre molti spunti di riflessione per un livello di lavoro un po’ più complesso. Il libro può essere allora messo a confronto con Ausländer (L), Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (L), Rosenstrasse (F). (Alessandra Minerbi)
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Elie Wiesel, La notte, Iª ed. 1954, Iª ed. it. La Giuntina, Firenze 1980 Da 14 anni
Elie Wiesel, allora ragazzo, viveva all’inizio della guerra a Sighet, un paesino della Transilvania, in Ungheria. La vita scorreva tranquilla e gli stessi ebrei ungheresi non ritenevano pienamente attendibili le notizie che cominciavano ad arrivare sui massacri nazisti. Essi furono gli ultimi ebrei d’Europa ad essere deportati, nel 1944, quando ormai molti pensavano che la guerra fosse prossima alla fine e Hitler vicino alla sconfitta. Giunti ad Auschwitz, la madre e la sorellina di Wiesel vengono subito selezionate per le camere a gas, Elie e il padre vengono considerati abili al lavoro e dunque messi nella fila di chi, ancora, può contribuire alla vita del campo:
“ Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.” (p.39)
Wiesel descrive con tono asciutto la dolorosa vita quotidiana, la lotta per sopravvivere, la fatica, il freddo, la fame: “Ormai non mi interessavo ad altro che alla mia scodella quotidiana di zuppa, al mio pezzo di pane raffermo. Il pane, la zuppa: tutta la mia vita. Ero un corpo. Forse ancora meno: uno stomaco affamato. Soltanto lo stomaco sentiva il tempo passare”. Il rapporto con il padre, poco sentito prima della deportazione, diventa per entrambi il motivo essenziale per il quale sopravvivere: ciascuno dei due cerca di essere di aiuto all’altro, di risparmiargli le esperienze più atroci, di procurare all’altro un pezzo di pane in più. Questo profondissimo legame umano è uno degli aspetti fondamentali che consente ad entrambi di sopravvivere anche se il padre morirà poco prima della liberazione, dopo che entrambi, all’avvicinarsi delle truppe sovietiche, erano stati trasferiti a tappe forzate nel campo di Buchenwald. Questa morte getta Elie nella disperazione più assoluta, i mesi successivi, fino alla liberazione, sono un susseguirsi di giornate vuote e senza niente da raccontare. Ragazzo profondamente religioso prima di essere deportato per Wiesel l’esperienza della deportazione significa innanzitutto la perdita di fede in un Dio superiore, non può esistere chi accetta uno strazio del genere: “Oggi non imploravo più. Non ero più capace di gemere. Mi sentivo al contrario, molto forte. Ero io l’accusatore, e l’accusato, Dio. I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini; senza amore né pietà. Non ero nient’altro che cenere, mi sentivo più forte di quell’Onnipotente al quale avevo legato la mia vita così a lungo. In mezzo a quella riunione di preghiera ero come un osservatore straniero”. (p.69)
Percorsi didattici
Il primo e più immediato percorso è quello di riflettere sulla storia della Shoah e della vita e della morte nei campi a partire dalle fonti dirette: le memorie scritte dai sopravvissuti: Se questo è un uomo (L); Ricordi della casa dei morti (L); Anni d’infanzia (L+F). Più nello specifico si può ragionare, confrontando questo testo soprattutto con quello di Primo Levi e di Luciana Nissim Momigliano su quanto sia stato importante avere legami di amicizia o parentela all’interno dei lager per affrontare con maggiore forza la terribile quotidianità. (Alessandra Minerbi)
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Art Spiegelmann, Maus, Iª ed. 1986-1991, Iª ed. it. Einaudi, Torino 2000
Da 11 anni
“Racconto di un sopravvissuto” suona il sottotitolo: protagonista di questa graphic novel è Vladek, il padre dell’autore, un ebreo polacco che negli anni ’70, interrogato ripetutamente dal figlio, ripercorre tutta la propria vicenda passata: il peggioramento della vita degli ebrei in Polonia, la guerra, il ghetto, la deportazione ad Auschwitz. La forza e l’originalità di questo fumetto stanno nella scelta di rappresentare i personaggi come animali antropomorfi: gli ebrei sono topi, i polacchi sono maiali, i tedeschi sono gatti, gli americani sono cani, ecc. In questo mondo in cui in realtà non vi è alcuna concessione all’ironia e alla semplificazione, passato e presente si intrecciano continuamente: il presente nella benestante America degli anni ’70 e il passato nella Polonia degli anni ’30 e ’40. Spiegelman inserisce se stesso come personaggio mettendo in luce le difficoltà di convivere con l’esperienza del padre, la fatica ad avere a che fare ancora adesso con lui che è così pessimista, polemico, irascibile, ma anche la dolorosa consapevolezza che tutto ciò è dovuto al suo passato che è sempre presente, al suicidio dell’amata moglie Anja con cui aveva condiviso tutti gli anni della persecuzione, al ricordo che non lo abbandona mai dei mesi passati ad Auschwitz, al rimorso per essere sopravvissuto al figlio Richieu, nato nel 1938 e morto durante la guerra. Art dunque litiga spesso con Vladek, non sopporta la sua avarizia, la sua mania di conservare ogni cosa, ma capisce anche che tutto ciò va accettato e compreso e proprio per questo insiste per conoscere tutto il doloroso e difficile passato.
Vladek Spiegelmann, in una parlata ebraico- newyorkese che lo rende ancora più credibile e umano - fra l’altro ricreata molto bene anche nella traduzione - comincia a raccontare la sua giovinezza nella Polonia degli anni ’30, l’amore per Anja, il matrimonio con questa ragazza proveniente da una ricca famiglia ebraica che regala al genero una fabbrica tessile, una vita insomma inizialmente serena sulla quale però cominciano a calare le ombre della guerra. Vladek viene fatto prigioniero quasi subito dalle truppe tedesche, dopo un periodo di detenzione vicino a Norimberga riesce a tornare a casa ma la situazione degli ebrei comincia a peggiorare assai velocemente: i divieti aumentano, la fame cresce, la creazione del ghetto segna una tappa estremamente dolorosa. Vladek non fa mistero di quanto i soldi abbiano aiutato in quel periodo, la ricca famiglia della moglie aveva reso possibile cavarsela in molti frangenti difficili e pericolosi corrompendo e contrattando. Vladek però, a differenza di molti conoscenti, non accetta di far parte della polizia ebraica e rivendica la propria dignità. Lui e Anja decidono nel 1944 di provare ad andare in Ungheria dove, secondo le notizie che giungono, gli ebrei vivono una situazione migliore. Vengono però denunciati da uno di coloro che avrebbe dovuto loro far passare il confine e deportati ad Auschwitz. Ha inizio così la narrazione della parte più dolorosa e difficile della vicenda di Vladek: il lavoro forzato, la fame continua, la lotta quotidiana per la sopravvivenza, la consapevolezza che molti altri membri della famiglia non hanno passato la selezione e sono stati uccisi. Poi le marce della morte, l’arrivo a Dachau e finalmente la liberazione, ma il passato non passa e la sofferenza di allora è appunto sempre presente per Vladek.
Percorso didattico
La scelta stilistica dei fumetti non deve trarre in inganno soprattutto in Italia dove spesso i fumetti sono considerati un genere letterario di serie B: il racconto è asciutto e rigoroso, fedele alla verità storica.
Un percorso possibile è quello di riflessione e analisi della realtà storica che qui emerge: l’esperienza del ghetto è per esempio narrata con grande intelligenza e può essere confrontata con altri testi o film, quali Il pianista (L+F), Il diario di Mary Berg (L), Diario di David Sierakowiak (L).
Un percorso più complesso di riflessione riguarda il dolore e la fatica di chi è sopravvissuto, il rapporto con quel passato terribile che non può più passare e anche la fatica della seconda generazione, tale tema emerge ad esempio nella figura di Hannah nel film Rosenstrasse. (Alessandra Minerbi)
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Paul Dowswell, Ausländer, Iª ed. 2009, Iª ed. it. Feltrinelli, Milano 2010
Da 13 anni
Piotr, un ragazzino tredicenne che vive in Polonia con i genitori, resta improvvisamente orfano durante la seconda guerra mondiale, nell’estate del 1941. Dopo un breve soggiorno in un orfanatrofio viene adottato a Berlino dalla famiglia del professor Kaltenbach, nazista convinto, consulente dell’Ufficio genealogico del Reich e impiegato presso l’Istituto di Antropologia, Ereditarietà umana ed Eugenetica di Berlino, convinto propugnatore delle teorie naziste sulla necessità di tutelare la pura razza ariana da ogni contaminazione.
Piotr viene adottato dalla famiglia Kaltenbach perché i suoi genitori erano tedeschi trasferitisi in Polonia e quindi nelle sue vene scorre pochissimo sangue polacco (solo una nonna era polacca), la sua lingua madre è il tedesco e, altro elemento fondamentale, il suo aspetto esteriore ne fa un membro perfetto della gioventù hitleriana. Piotr si trova così sbalzato nel cuore della Berlino in guerra, in una famiglia di nazisti convinti con tre figlie femmine dove ciascuno fa il proprio dovere per essere un perfetto nazista, dalla figlia minore, una bimbetta che anche nella casa delle bambole ha l’immagine del Füher appesa alla parete, alle due figlie maggiori, convinte attiviste delle organizzazioni giovanili naziste, alla madre che lavora in un Lebensborn, le “fonti di vita”, centri preposti alla nascita dei più puri membri della razza ariana. Piotr, felice di tornare ad avere una famiglia, è in un primo tempo completamente assorbito dal nuovo clima politico ed ideologico in cui si trova a vivere: partecipa con entusiasmo a tutte le attività che gli vengono proposte, non soltanto a scuola, ma soprattutto nel gruppo della Hitler Jugend di cui entra a fare parte; si sente parte integrante di quella Volksgemeinschaft, la “comunità popolare” nazista di cui i suoi genitori adottivi erano convinti sostenitori. Con il passare dei mesi però Piotr comincia a percepire un senso di estraneità sempre più marcata verso la realtà in cui si trova a vivere: ogni volta che sente parlare male dei polacchi si sente punto nel vivo e non sempre riesce a condividere l’odio antisemita da cui è circondato. Inizialmente vive con grandi sensi di colpa quella che percepisce come ingratitudine verso la famiglia che lo ha generosamente accolto, ma quanto più il fanatismo nazista sembra essere in contraddizione con una guerra che si fa sentire sempre più pesantemente sulla vita quotidiana di ciascuno, tanto più aumentano i suoi dubbi e le sue perplessità. L’amicizia con Segur ed Anna, due coetanei assai critici verso il nazismo, aprono a Piotr gli occhi su un modo assai diverso di poter vivere mostrandosi all’apparenza ferventi sostenitori del Reich, ma ascoltando in realtà la radio nemica e esprimendo giudizi assai critici verso il potere dominante. La famiglia di Anna, nota a Berlino per le sue posizioni di appoggio al regime, si impegna in realtà per aiutare alcuni ebrei nascosti e fa parte di una rete estesa ma esile di resistenti al Reich. Piotr si sente quotidianamente dilaniato tra il desiderio di partecipare a concrete azioni contro il nazismo e il terrore di essere arrestato. Decide di seguire l’esempio di Anna e nell’estate del 1943, quando il pericolo per entrambi sarà troppo grande, fugge con lei e la madre in Svezia, mentre il padre viene arrestato e torturato. Sarà proprio Elisabeth, la figlia maggiore dei Kaltenbach, che lo aveva sempre trattato con disprezzo e freddezza, ad aiutarlo nella fuga nel momento in cui sta per finire nelle mani della Gestapo, dimostrando come ormai, anche all’interno delle famiglie più profondamente fedeli al regime, vi fossero spaccature profonde.
Percorso didattico
Il libro è prima di tutto una bellissima ricostruzione della vita quotidiana durante il nazismo, del clima imperante di sospetto, delazione, paura in cui tutti erano vittime della forza pervasiva del controllo poliziesco.
Un percorso didattico può riguardare la politica razziale del regime che in queste pagine è delineata con grande chiarezze: Il piccolo Adolf non aveva le ciglia, (L).
Un’altra possibilità è una riflessione sui percorsi individuali di presa di coscienza rispetto al regime e alla sua brutalità L’amico ritrovato (L). (Alessandra Minerbi)
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Rosenstrasse, regia di Margarethe von Trotta, Germania, 2003
Da 13 anni
Ruth alla morte del marito, in un momento imprecisato degli anni ’90, vuole imporre ai figli un rispetto del rituale ebraico che era sempre stato estraneo alle abitudini della famiglia e si dichiara addirittura contraria al matrimonio della figlia Hannah con Luis, perché non ebreo. Dopo aver conosciuto, in occasione della veglia funebre, una cugina di cui ignorava l’esistenza Hannah capisce che la madre ha sempre nascosto una parte importante del suo passato e decide di andare a Berlino, città d’origine di Ruth, per scoprire la verità. Fingendosi una studiosa americana di storia conosce Lena, una donna ormai anziana che si era presa cura di Ruth da piccola quando la madre, ebrea, era stata arrestata. In un’alternanza di lunghi flash back nella Berlino della guerra Lena racconta tutta la sua storia e come essa si sia incrociata con quella della piccola Ruth che aveva allora soltanto otto anni. Lena era sposata con un ebreo e proprio questo matrimonio misto, secondo le leggi naziste, doveva salvarlo dalla deportazione. Un giorno però il marito viene arrestato e Lena si reca alla polizia per avere informazioni, qui incontra una bambina, Ruth appunto, che cerca di sapere qualche cosa su sua mamma, anch’essa arrestata. Lena decide allora di prendersi cura di Ruth, la porta a casa con sé e le promette che cercheranno insieme di avere notizie dei loro parenti. Il marito di Lena faceva parte dei 1800 ebrei che dopo la sconfitta di Stalingrado, pur se sposati con non ebree, vennero arrestati e tenuti rinchiusi in un edificio in Rosenstrasse. Le mogli cominciarono a stazionare giorno e notte davanti alla prigione dei propri compagni e dopo giorni e notte di proteste soltanto verbali riuscirono a fare liberare i propri uomini; fra di loro alcuni erano già stati deportati verso est e non fecero mai ritorno, ma la maggioranza fu liberata. Della mamma di Ruth invece non vi si hanno più notizie e così Lena ha continuato a prendersi cura di lei fino a che, tre anni dopo, una zia emigrata negli Stati Uniti era tornata a prenderla. Hannah viene gradualmente a conoscenza della verità attraverso il racconto lungo e sofferto di Lena e capisce che la madre ha sempre nascosto quel passato così doloroso e che soltanto la morte del marito, che condivideva il suo segreto, ha fatto scattare qualcosa nella sua coscienza.
Percorso didattico
La vicenda delle donne di Rosenstrasse, realmente verificatasi durante la seconda guerra mondiale, pone al centro della narrazione storica l’importanza della resistenza senza armi che fu spesso prerogativa femminile. Le donne fanno uso soltanto della loro tenacia e delle loro parole, ma alla fine ottengono la liberazione dei loro uomini. Intorno a loro Berlino durante la seconda guerra mondiale in cui le alte sfere del partito ancora vivono nel lusso mentre la maggioranza della popolazione vive nel terrore della repressione poliziesca e nel timore dei bombardamenti.
Arthur, fratello di Lena, è un alto funzionario nazista, ferito in guerra e ormai deluso rispetto al regime, convinto che la situazione bellica stia volgendo al peggio. Egli non ha il coraggio di rompere con la sua ricca famiglia nella quale il padre, nazista convinto, ha ripudiato Lena quando lei ha spostato un ebreo. Arthur però è molto legato alla sorella, e fa di tutto per cercare di aiutarla.
Oltre a riflettere sulle forme di resistenza messa in atto dalle donne di Rosesntrasse questo film offre la possibilità di mettere in luce la scelta di non ebrei, come Lena, di aiutare ebrei, come Ruth. Le forme e le modalità di questi aiuti furono tante e varie e in molti casi resero possibile la sopravvivenza degli ebrei, in altri ciò non fu possibile, ma offrirono almeno un momento di tregua dalla fuga quotidiana: Arrivederci ragazzi (F), Il pianista (F), Una bambina e basta (L).
Un altro tema, piuttosto complesso, che emerge è quello della fatica, per la seconda generazione, di capire la sofferenza dei genitori. Il lungo percorso che porta Hannah a Berlino è una metafora della sua presa di coscienza di ciò che la mamma ha davvero vissuto e della fatica di condividere questo difficile passato. Questo tema è raccontato con grande delicatezza e intelligenza anche in Maus (L) (Alessandra Minerbi)
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La chiave di Sara, regia di Gilles Paquet-Brenner, Francia, 2010
da 13 anni
Il film si svolge su due piani narrativi continuamente intrecciati.
Sara è una bimba di dieci anni che nella grande retata del 16 luglio 1942 a Parigi viene arrestata con la mamma e il papà. Appena prima di uscire di casa la piccola riesce a convincere il fratellino Michael a nascondersi nell'armadio e ad aspettarla fingendo di giocare a nascondino. Portata prima con i genitori al Velodrome d'Hiver e poi in un campo di transito, Sara riesce a scappare ossessionata dall'idea di andare a liberare il fratellino aprendo l'armadio di cui lei tiene gelosamente la chiave con sé. Nella sua folle fuga verso Parigi trova rifugio durante la notte presso i coniugi Dufaure che decidono di prendersi cura di lei sfidando i rischi che ciò comporta. Tutti e tre arrivano a Parigi, ma nel vecchio appartamento di Sara, ormai occupato da un'altra famiglia, si è compiuta la tragedia: il piccolo Michael è morto nell'armadio aspettando che la sorellina lo liberasse.
Circa sessanta anni dopo la giornalista Julia Jarmond deve scrivere un articolo sul rastrellamento di luglio e cercando di raccogliere notizie sull'argomento scopre che la casa nel Marais, dove sta per trasferirsi con il marito, era proprio quella in cui viveva Sara. Julia viene a sapere che il suocero era in casa con il proprio padre quando Sara ha trovato il fratellino ma che non ha mai parlato con nessuno di quell'episodio per non turbare gli altri membri della famiglia. L'uomo ormai anziano dà a Julia dei documenti che appartenevano a Sara e che lui non ha mai avuto il coraggio di guardare. Comincia per Julia, che sta vivendo un momento molto delicato nella sua vita personale e matrimoniale, un difficile viaggio a ritroso nella storia della famiglia del marito. Sara non risulta deportata e dunque Julia continua a cercare in modo quasi frenetico sue notizie e riesce finalmente a trovare il marito ed il figlio, mentre viene a sapere che Sara è morta molti anni prima. Sarà il marito di Sara a raccontare al figlio che la mamma non ha mai voluto che lui sapesse la verità, ha sempre cercato di proteggerlo dal proprio terribile passato e che la sua morte non è stata, come gli era sempre stato detto, dovuta ad un incidente stradale, ma un suicidio perché la giovane donna era ossessionata dal dolore e dal senso di colpa.
Percorso didattico
Il film non è facilissimo da seguire proprio per il continuo intrecciarsi dei livelli narrativi. Più che un film sulla persecuzione degli ebrei francesi o sulla retata del luglio 1942, il senso di una riflessione su questa vicenda è quello del ricordo e della rimozione della Shoah da parte di coloro che ne sono stati in diversa misura coinvolti. La famiglia del marito di Julia rappresenta la maggioranza della società che anche se sapeva ha taciuto, che ha approfittato delle occasioni che la persecuzione ha offerto (in questo caso l'appartamento liberato) e ha messo a tacere negli anni successivi eventuali rimorsi. Julia è la voce di chi vuole invece capire e conoscere andando fino in fondo anche a costo di mettere in crisi la propria vita. Si può confrontare questo libro con il percorso del giornalista di Le due facce dell'innocente (L) o con quello dell'avvocatessa Ann Tablot in Music box (F). (Alessandra Minerbi)
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Primo Levi, Se questo è un uomo, Iª ed. De Silva, 1947, ristampe successive Einaudi, Torino
Da 14 anni
Il testo fondamentale della letteratura sulla deportazione conserva intatto a più di sessant’anni dalla prima uscita la sua forza, la sua intelligenza e, se così si può dire, la sua bellezza.
Dopo aver ripercorso brevemente le vicende della sua partecipazione alla Resistenza e l’arresto, Levi racconta la detenzione nel campo di Fossoli presso Carpi e poi il viaggio e la prigionia ad Auschwitz. “Ognuno si congedò dalla vita – così Levi ricorda l’ultima notte a Fossoli prima della partenza sui treni piombati – nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i loro bambini e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino voi non gli dareste oggi da mangiare?” (p.13).
Già dalle prime pagine emerge una delle caratteristiche fondamentali di questo testo: racconto autobiografico, ma anche riflessione sui comportamenti dell’uomo in situazione estrema, attenzione a come ciascuno intorno all’autore ha affrontato quella terribile esperienza. L’arrivo ad Auschwitz, la selezione, il primo contatto con una realtà che è difficile anche da descrivere, coincidono con la consapevolezza che per sopravvivere si può trovare solo in se stessi la forza di farlo, cercando di restare attaccati a qualche elemento del passato che faccia ricordare cos’è la dignità di un essere umano. “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli: se parleremo non ci ascolteranno se ci ascoltassero non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga” (p.23).
Levi ripercorre tutto il lungo anno della sua prigionia ad Auschwitz, la fame, il freddo, la solitudine, la paura, l’arbitrio degli aguzzini, gli incubi notturni, la paura di essere selezionati per la morte, la fatica straziante del lavoro senza senso, senza tregua. Accanto a questo insuperato affresco della sua percezione di quell’esperienza vi è un universo di persone che lottano, odiano, sperano e soffrono con lui. Vi sono in queste pagine le prime riflessioni, poi riprese da Levi negli anni successivi, sulle tante possibilità e forme di sopravvivenza nel Lager. “Se i sommersi non hanno storia, e una sola e ampia è la via della perdizione, le vie della salvazione sono molte, aspre ed impensate” (p.82). Molte riflessioni di Levi sono dedicate ai “prominenti” quella variegata e numerosa parte dei prigionieri che accetta di esercitare un potere, anche minimo, pur di avere qualche privilegio. Non c’è mai nelle sue parole aristocratica condanna per gli altrui comportamenti, ma dolorosa consapevolezza che chiunque in una situazione di prigionia e degrado può accettare pesanti compromessi con la propria coscienza pur di sopravvivere: “Ma oltre ai funzionari propriamente detti, vi è una vasta categoria di prigionieri, che, non favoriti inizialmente dal destino, lottano con le sole loro forze per sopravvivere. Bisogna risalire la corrente; dare battaglia ogni giorno e ogni ora alla fatica, alla fame, al freddo, e alla inerzia che ne deriva; resistere ai nemici e non aver pietà per i rivali; aguzzare l’ingegno, indurare la pazienza, tendere la volontà. O anche, strozzare ogni dignità e spegnere ogni lume di coscienza, scendere in campo da bruti contro gli altri bruti, lasciarsi guidare dalle insospettate forze sotterranee che sorreggono le stirpi e gli individui dei tempi crudeli. Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quante sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e di compromessi” (p.83).
Decine sono le figure tratteggiate magistralmente in queste pagine, di amici e di persone da cui era meglio guardarsi, di crudeli kapò e di ragazzi buoni e amici come Pikolo, Charles e altri che hanno reso possibile che il processo di disumanizzazione voluto dai nazisti non venisse compiuto. Fra tutti spicca forse Lorenzo, un operaio civile italiano che portò regolarmente per mesi un po’ di cibo a Levi e, cosa ancora più importante in quell’universo completamente chiuso a ogni contatto con l’esterno, fece arrivare ai suoi in Italia un breve biglietto. Lorenzo è qui anche metafora di tutto ciò per cui ancora vale la pena esistere e lottare: “Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi” (p.109).
Percorso didattico
Il primo e più immediato percorso è quello che mette a confronto questo testo con altre esperienze nei Lager: La Notte (L); Ricordi della casa dei morti (L); Anni d’infanzia (L+F). (Alessandra Minerbi)
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Helga Schneider, Stelle di cannella, Iª ed. it. Salani, Milano 2002
Da 10 anni
La storia si svolge a Wilmersdorf, quartiere di Berlino dove, nel dicembre 1932, le tre famiglie Rauch, Korsakov e Winterloch vivono vicine, in buona armonia. I Rauch sono cattolici, il padre fa il poliziotto, hanno un figlio di nove anni, Fritz. Il signor Korsakov, giornalista, e suo figlio David sono ebrei, mentre la signora Korsakov e sua figlia Lene sono cattoliche. In casa Winterloch, famiglia cattolica, vivono Berty e Vicky, entrambi studenti universitari, insieme a una governante, essendo il padre architetto, rimasto vedovo, spesso via per lavoro. Alcuni componenti delle tre famiglie sono particolarmente legati: i due bambini, Fritz Rauch e David Korsakov, di nove anni, sono amici e, a scuola, compagni di banco; Lene Korsakov e Berty Winterloch si fidanzano e poi si sposeranno; e c’è anche una grande amicizia tra Muschi e Koks, i gatti delle due famiglie Rauch e Korsakov. Ma nell’arco di pochi mesi, con l’ascesa al potere di Hitler e la sua politica discriminatoria nei confronti degli ebrei, i rapporti tra le persone cambiano rapidamente. Chi simpatizza col nuovo governo, come Berty, dice: “Bisogna stare lontani dagli ebrei, ecco cosa intendo. Il governo non li vuole? Bene, noi non possiamo lottare contro i mulini a vento. Occorre evitarli, è l’unica soluzione” (pag.20).
David, espulso dalla palestra, si vede chiudere le porte dei vicini. Anche a scuola il clima di intolleranza aumenta al punto che Fritz, l’amico di un tempo, ora entrato nella Jungvolk, l’organizzazione giovanile hitleriana, ottiene dall’insegnante di cambiare posto, e col passare del tempo diventa sempre più ossessivamente aggressivo, al punto da proiettare sul gatto di David il suo odio antisemita. Doveva morire. Anzi, tutti gli ebrei dovevano morire. E così un giorno, quando fu certo che nessuno lo vedesse, con la vernice nera Fritz tracciò sul marciapiede davanti al cancello dei Korsakov la scritta “A morte gli ebrei” (pag. 37).
Anche Lene, che all’inizio aveva difeso il nonno ebreo, arriva ad accettare per il suo negozio un cartello che impedisce l’ingresso agli ebrei. Inizialmente addolorata per le violenze di ogni tipo che colpiscono i suoi familiari, pian piano però se ne allontana, abbandonandoli al loro destino. David, isolato, minacciato, aggredito, si sente tradito da tutti: dalla sorella, dall’insegnante, dai compagni di classe, da Fritz e dagli altri vicini di casa. E, paradossalmente, si convince di meritare quanto gli sta accadendo. I genitori assistono impotenti al suo progressivo malessere, il padre si domanda: “… Come si può spiegare l’antisemitismo a un ragazzo? Si possono elencare le origini e le tipologie dell’antisemitismo e del razzismo in generale… E’ il sentimento che non si riesce a spiegare, il sentimento razzista e antisemita. Nessun essere umano nasce razzista, il razzismo va inculcato nei giovani, va istillato come un veleno, come un male contagioso. E’ per questo che Fritz Rauch in fondo merita qualche attenuante” (pag. 100).
Non c’è altra soluzione che espatriare. Intanto, mentre la signora Korsakov scopre di aspettare un figlio, Fritz si accorge che la sua gatta Muschi è gravida. Se farà gattini neri, prova della paternità del gatto Koks, Fritz dichiara che eliminerà il gatto “che ha contaminato il sangue” di Muschi! Muschi partorisce molti gattini neri, ma muore di parto insieme ai suoi gattini. Come preannunciato, dopo poco il gatto Koks subisce la vendetta di Fritz. Nel 1934 i Korsakov riescono a emigrare negli Stati Uniti.
Percorso didattico
E’ un libro che si può leggere a fine quarta primaria o meglio in quinta, a patto che i bambini sappiano qualcosa sul nazismo e sull’antisemitismo. Una prima indicazione è quella di soffermarsi sugli episodi in cui si raccontano le progressive angherie, proibizioni e violenze nei confronti degli ebrei, in questo libro rappresentati dalla famiglia Korsakov, accolte con la complicità o l’indifferenza dei più. Interessante a questo proposito la figura di Lene, da seguire nel suo progressivo allontanamento dalla famiglia d’origine.
Una seconda indicazione è una riflessione su come il nazismo – e le dittature in genere – miri a “impadronirsi” dei giovani, educandoli fin da piccoli all’odio e al militarismo. Di fronte al potere di un progetto così strutturato, che si serve anche della scuola e degli insegnanti, come può difendersi un semplice ragazzo?
Altre vicende di amicizia fra ragazzi possono essere confrontate con questa: L’amico ritrovato (L),
Io e Sara, Roma 1944 (L); nel primo caso l’amicizia, come in Stelle di cannella, è spezzata dal nazismo, mentre nel secondo caso l’amicizia fra le due bambine riesce a sopravvivere alla persecuzione; una nota di speranza importante per i bambini più piccoli.
Un altro percorso possibile è quello di come i ragazzini, in situazione molto diverse, hanno affrontato la persecuzione razziale: Il diario di Anne Frank (L), Un sacchetto di biglie (L), Arrivederci ragazzi (F), Anni d’Infanzia (L+F). (Anna Sarfatti)
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Train de vie, regia di Radu Mihaileanu, Francia, Belgio, Romania, 1998
Da 11 anni
In uno Shtetl in un luogo imprecisato dell'Europa dell'est giunge nell'estate del 1941 la notizia che i nazisti si stanno avvicinando e che il loro arrivo significa morte e deportazione verso un luogo ignoto, ma dal quale nessuno è mai tornato. Il rabbino riunisce tutti i saggi del villaggio cercando una soluzione, ma nessuno sa come affrontare questa terribile emergenza. Shlomo, lo scemo del villaggio, propone di preparare un falso treno travestendo tutti gli ebrei da "deportati" e "nazisti" e cercare così di raggiungere la Palestina attraverso l'Ucraina e la Russia. Quella che sembra inizialmente un'idea folle diventa un progetto condiviso dalla maggioranza degli abitanti e comincia così una febbrile attività per preparare la partenza, approntare il treno con le insegne del Reich ed i vagoni per la deportazione, fare le divise per i "nazisti". Nell'affannoso susseguirsi dei preparativi nessuno sa rispondere a colui che domanda se mai torneranno; una mancata risposta che lascia intuire un futuro assai incerto, mascherato solo dalla necessità di accelerare al massimo la partenza. Durante il viaggio si ricrea nel treno il microcosmo che aveva animato la vita nel villaggio, particolarmente agguerriti sono gli scontri fra la piccola cellula comunista, gli ortodossi, i sionisti convinti; insomma nonostante la tragicità del viaggio nessuno rinuncia a difendere le proprie idee e perorare la propria causa.
La finzione riesce però assai bene tanto da riuscire a beffare anche gli stessi nazisti durante una sosta ad una stazione lungo il percorso. I partigiani russi che cercano di sabotare i treni tedeschi sono a loro volta messi in seria difficoltà da quello strano treno, capiscono che ha dei viaggiatori particolari che non rientrano in nessuna categoria conosciuta e non sanno dunque come comportarsi. La tragedia sembra sfiorata quando il treno viene fermato da alcune camionette naziste, ma poi si scopre che si tratta in realtà di Rom che hanno avuto la stessa idea e che a loro volta fingono di essere un gruppo di "deportati" accompagnati dai "nazisti". I due gruppi decidono di proseguire insieme sul treno e la salvezza sembra raggiunta quando riescono a superare il territorio occupato dall'esercito tedesco e a guadagnare una "terra di nessuno". L'ultima scena, in cui si vede Shlomo - voce narrante durante tutta la narrazione - dietro un filo spinato, lascia intuire che tutto il film è stato lo splendido sogno di come sarebbe potuta andare la storia, ma allo sterminio non c'è stato scampo, la salvezza è stata possibile solo nel racconto di un pazzo, non nella tragica realtà.
Percorso didattico
Ironico e geniale, questo film si presta a molti livelli di lettura. La fine lascia aperto il significato stesso della storia narrata, se davvero sia una vicenda accaduta o soltanto sognata nella mente di Shlomo. La rappresentazione iniziale della vita nello shtetl consente di introdurre la complessa questione degli ebrei orientali, i loro modi di vita e anche la funzione, spesso difficile da capire, del rabbino, non un’autorità religiosa, ma un saggio che meglio degli altri conosce e sa interpretare i testi sacri. Il messaggio fondamentale del film è la messa in ridicolo di ogni stereotipo: l’ebreo che deve fare il capo dei nazisti si prende con estrema serietà e non accetta che gli altri non gli ubbidiscano; i partigiani quando capiscono che nel treno ci sono dei “nazisti” ebrei non sanno più come considerarli né come trattarli; i singoli – secondo quanto racconta Shlomo nella scena finale – faranno ognuno la propria scelta una volta guadagnata la libertà: molti rom si stabiliranno in Palestina, alcuni ebrei in India, altri in Cina, a dimostrare che non esistono “gli ebrei” che vogliono tutti la stessa cosa, “gli zingari” che si comportano tutti nello stesso modo, ecc. (Alessandra Minerbi)
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Luciana Nissim Momigliano, Ricordi della casa dei morti, La Giuntina, Firenze 2009 Da 13 anni
Queste memorie sono state scritte pochi mesi dopo il ritorno dell’Autrice della deportazione nel campo di Auschwitz. Uscì in Italia nel 1946 come seconda parte di un libro intitolato Donne contro il mostro, di cui l’autrice della prima parte, Pelagia Lewinska, è spesso risultata come unica autrice. La pubblicazione di Se questo è un uomo che è poi diventato negli anni successivi il testo di riferimento per la deportazione degli ebrei italiani ha fatto sì che di questo libro venissero trascurate l’importanza e la ricchezza.
Luciana Nissim Momigliano, ebrea piemontese, era stata arrestata all’età di 25 anni come membro di una banda partigiana. Una volta scoperto che era di origine ebraica venne trasferita a Fossoli e da qui deportata ad Auschwitz nel febbraio del 1944, nello stesso convoglio su cui partirono Primo Levi (cui era legata da un’antica amicizia e dalla condivisione della breve esperienza resistenziale) e l’amica del cuore Vanda Maestro.
Il viaggio verso l’ignoto, descritto con crudo realismo, è solo una pallida anticipazione dell’orrore che aspetta tutti i deportati all’arrivo ad Auschwitz. I messaggi che sia la Nissim che altri riescono a lanciare dal treno prima di arrivare al Brennero (e che saranno fatti giungere a destinazione da una mano pietosa) sono l’ultimo contatto con i propri cari prima di sprofondare nell’ignoto.
All’arrivo al campo Luciana Nissim, da poco laureata in medicina, ha la prontezza di dire di essere medico e questo le consentirà di lavorare nell’infermeria sfuggendo all’ancor più massacrante lavoro quotidiano all’esterno cui sono sottoposti gli altri deportati. La Nissim è ben consapevole di quanto sia stato importante per lei avere un’amica del cuore accanto nei mesi della detenzione ad Auschwitz “Io e Vanda parliamo poco l’una con l’altra. Una parola ci basta per rievocare lunghe storie - abbiamo talmente tanta vita in comune! Studi, libri – e i bombardamenti, i coraggiosi ragazzi della banda, la prigione di Aosta, Fossoli… Ricordi di lunghe chiacchierate, ricordi di persone care, lontane parole d’amore” (p.49). Un altro elemento di grande conforto è di non essere stati deportati insieme ad altri famigliari, la speranza che i propri cari restino al lontano da quest’orrore è continua. La Nissim ad ogni arrivo di un convoglio dall’Italia si avvicina terrorizzata di poter trovare qualche amico o parente. Ma se questi sono elementi che possono contribuire a spiegare la forza che si trova per andare avanti, quello che emerge da queste pagine è soprattutto la lucida consapevolezza della spersonalizzazione che la vita nel campo provoca in brevissimo tempo: “Perché la gente che vive in un campo è come morta dentro: tutto quello che nel mondo ha valore, tutto quanto stimavano essere onesto e degno, in un Lager appare ridicolo; qui non si vede nulla di generoso, di nobile, di disinteressato, ma solo malvagità, egoismo, odio. Ciascuno lotta ferocemente, belluinamente, per la sua vita, per questa sua povera assurda disperata vita animale, dovesse sacrificare per la sua la vita di tutti gli altri. E questa morte morale, quest’irrisione a ogni senso di solidarietà, quest’oblio della dignità umana sono molto più tristi della morte fisica di coloro che non sono più” (p.53). Si vive alla giornata in un tempo fatto al contempo di eterno presente e di attesa della fine dell’incubo, un’attesa anch’essa sospesa “due mesi è il termine massimo che ciascuna può porsi senza morire di disperazione” (p.48).
Se è vero che tutti vivono un processo di annientamento della personalità, la Nissim coglie anche con chiarezza l’esistenza di una gerarchia interna al campo, nella quale gli italiani occupano uno dei posti più bassi: “Ma le italiane che entravano in campo si ammalavano subito. Erano abituate a un altro clima, a un altro vitto, non sapevano arrangiarsi, parlavano solo italiano… e ricevevano sempre i posti di lavoro più duri, gli zoccoli più scalcagnati, il cibo meno nutriente. Nessuna di loro arrivava ad ottenere un buon posto, nessuna aveva ricche conoscenze che potessero aiutarla: si ammalavano l’una dopo l’altra, e morivano” (p.67).
In questo tempo sospeso tra sofferenza e orrore l’essere medico consente almeno alla Nissim di trasferirsi come medico alla fine di agosto del 1944 nel campo di Hessisch Lichtenau, dipendente da un punto amministrativo da Buchenwald, un campo sorto intorno ad una fabbrica di munizioni dove sarà liberata nella primavera successiva dagli alleati.
Percorso didattico
Il primo e più immediato percorso è quello di riflettere sulla storia della Shoah e della vita e della morte nei campi a partire dalle fonti dirette: le memorie scritte dai sopravvissuti: Se questo è un uomo (L); La notte (L). (Alessandra Minerbi)
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Lia Levi, Una bambina e basta, Edizioni e/o, Roma 1994 Da 11 anni
Torino 1938, la bambina ha sei anni. Avverte un clima di inquietudine in famiglia e non capisce. Un giorno la mamma le dice: “Senti, quest’anno non potrai tornare alla tua scuola… Mussolini non vuole più che i bambini ebrei vadano in classe con gli altri.” Così la bambina viene iscritta alla scuola ebraica. A Torino cambierà casa, poi si trasferirà con la famiglia a Milano, dove il padre ha un nuovo lavoro. Ma poco dopo il lavoro non è più a Milano, è a Roma. Altra città, altra scuola ebraica. La famiglia della bambina gode di qualche piccolo privilegio, perché il padre è “discriminato”, essendo figlio di un ufficiale caduto nella guerra del 1915-18. Un privilegio, ad esempio, è potersi permettere una donna di servizio, Maria. Ma arriva il giorno che Maria non può più stare con la famiglia della bambina e ci si accorda con i vicini di casa perché fingano di prenderla a servizio. I tempi si fanno più difficili, fino al giorno in cui la famiglia della bambina viene a sapere che la sorella della mamma è stata arrestata al confine tra Italia e Francia. La bambina, con sua madre, andrà a Ventimiglia per assistere al processo della zia. Le cose si mettono male.
Poi arriva l’estate del 1943 e la bambina si diverte a mettere in scena “Sogno di una notte di mezza estate” con gli amici, ebrei e cattolici, finalmente insieme. Ma un giorno c’è una brutta lite con la figlia di un fascista, che lancia una minaccia che fa paura: “Tanto voi siete ebrei e mio padre vi farà arrestare tutti”. Settembre e le file al mercato, per portare a casa qualcosa da mangiare: è il compito della bambina e di sua sorella. Ma quando i tedeschi entrano a Roma, la mamma grida spaventata: “Vogliono l’oro! I tedeschi hanno chiesto agli ebrei cinquanta chili d’oro!”. La bambina ha paura, non capisce. Sente i genitori confabulare ma nessuno risponde alle sue domande. Finché la mamma annuncia che hanno pensato di allontanare le bambine. C’è un grande convento fuori città; le suore sono accoglienti e accettano il patto che le bambine non andranno in chiesa. Ma a tavola, con le altre, si faranno il segno della croce per non dare nell’occhio. “… A nessuno, a nessuno direte mai che siete ebree, avete capito?” dice la mamma. (pag.55). La bambina scopre che la mamma non si fermerà con loro: sarà lei stessa ad occuparsi delle due sorelle minori e di altre due bambine. Ma dopo qualche giorno anche la mamma si rifugia nel convento, scappata per miracolo a una retata dei tedeschi. Nel convento arrivano intanto altre bambine ebree: da meno di dieci che erano all’inizio, ora sono più di trenta. Il padre della bambina ha trovato posto in una strana pensione, una specie di bisca. Intanto, in una villa vicino al collegio, sono venuti ad abitare dei giovani tedeschi che fanno amicizia con due ragazze grandi, che la guerra ha separato dalle famiglie.
Si teme che i tedeschi entrino nel convento e alle bambine viene cambiato nome, mentre alla mamma e alle altre donne rifugiate viene data una divisa da suora.
Col passare dei giorni, le suore chiedono alle bambine sacrifici e fioretti. La bambina sente farsi più pressante l’invito ad aderire alla loro fede, quella è la via della salvezza. Un giorno Suor Maria Speranza le porge “Le confessioni di S.Agostino e della vera religione” e alla bambina sembra di sentirsi chiamare da Dio, “Non il Dio ebraico sempre arrabbiato, ma quello buono dei cristiani” (pag. 86). Il senso di disorientamento religioso prosegue, la bambina confida a un amico: “per me non finirà solo con la conversione”. Sta pensando di farsi monaca… o santa? Chiede un colloquio a Suor Maria Speranza, si prepara a fare il grande passo, ma le cose vanno diversamente, non è chiaro come accade che la mamma della bambina sia informata e la fermi: “Ho telefonato a papà, domani viene a prenderti”. Il giorno dopo la bambina si incontra col padre che le spiega la sua posizione: è “teista”. E alla fine di una lezione molto infervorata riaccompagna la bambina al convento.
Una mattina, sei soldati tedeschi col fucile spianato si presentano alla portineria. La bambina li segue dalla finestra, terrorizzata. Ma, dopo un po’ i tedeschi si allontanano, cercavano un soldato tedesco scappato. Passa altro tempo, gli americani sono sbarcati sulla spiaggia di Anzio. Un giorno, finalmente, i tedeschi della villa imballano casse, mentre gli altri soldati passano davanti al convento come richiamati. Sono arrivati gli americani. Finalmente, la famiglia si riunisce a casa. Tramite la Croce Rossa si scambiano notizie con i familiari lontani. La bambina, ormai di dodici anni, si prepara per l’esame che dovrà sostenere a ottobre insieme ai rimandati. Nel frattempo la mamma vuole anche che studi per la “maggiorità” religiosa, preparata da un rabbino.
Un giorno la bambina decide di scrivere una lettera alla radio per partecipare a un concorso: “Cara radio, sono una bambina ebrea…”. La mamma legge e comincia a strappare il foglio in coriandoli. “Non sei una bambina ebrea, hai capito? Hai capito? Sei una bambina. Una bambina e basta.”
Percorso didattico
Scritto in prima persona, questo libro esprime in modo molto convincente il punto di vista di una bambina, frastornata dalle vicende familiari causate dai terribili eventi storici. Quello che più la fa soffrire è il momento in cui, per sfuggire ai tedeschi, la famiglia è costretta a separarsi. Quello che più la disorienta è il contatto in convento con le suore e la loro fede che rappresentano per lei (e quelli come lei) la salvezza.
Si può pensare ad un percorso più articolato sull’infanzia durante la persecuzione razziale che metta a confronto realtà diverse: chi è vissuto nascosto ma isolato Diario di Anna Frank (L), chi è vissuto in fuga continua Un sacchetto di biglie (L), chi dopo aver capito che il clima stava mutando è riuscito a riparare all’estero con i genitori Stelle di cannella (L), chi è stato deportato Anni di infanzia (L).
E’ possibile pensare a un percorso specifico sulla situazione italiana vedendo il film Concorrenza sleale, e leggendo anche Io e Sara, Roma 1944 (L) e, per ragazzi un po’ più grandi, Il giardino dei Finzi Contini (L). (Anna Sarfatti)
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Elie Wiesel, Le due facce dell’innocente, Garzanti, 2012
da 13 anni
Yedidyah, giornalista esperto di teatro, lavora a New York dove vive tranquillamente con la moglie e i figli fino a che un evento non cambia la sua vita in modo così sconvolgente da lasciare lui stesso stupito dell’intensità di quanto gli accade. Un giorno il suo principale gli propone di occuparsi della cronaca del processo istruito contro Werner Sonderberg, un giovane tedesco accusato di aver ucciso un anziano zio. Yedidyah accetta e comincia per lui molto più che un nuovo tipo di lavoro, ha inizio un viaggio a ritroso nel suo passato difficile e doloroso che lo accompagnerà per tutti gli anni successivi. Il giovane Sonderberg di fronte all’accusa di omicidio si dichiara “colpevole e non colpevole” lasciando nell’incertezza la corte; viene poi assolto grazie ad alcuni testimoni che depongono in suo favore, ma il mistero della sua strana dichiarazione non viene chiarito. Yedidyah scoprirà la verità solo molti anni dopo, quando Sonderberg chiede di incontrarlo e di parlargli perché all’epoca del processo aveva letto tutti i suoi articoli e ne era rimasto colpito. In un incontro emozionante e serrato Sonderberg racconta che l’anziano uomo non era uno zio, ma il nonno paterno che in gioventù aveva fatto parte delle Einsatzgruppen, i gruppi speciali incaricati di annientare gli ebrei d’Europa. In quell’ultimo incontro fra i due nei monti Adriondack nonno e nipote si erano scontrati con violenza. Il nonno cercava di spiegare le sue ragioni: l’orgoglio e la gioia di agire per il Führer, la soddisfazione di essere ammirato per l’audacia e la crudeltà, la consapevolezza di contribuire, con il proprio impegno a creare una Germania pura e migliore perché liberata dagli ebrei, considerati razza inferiore. Il nipote è accecato dall’odio: assicura al nonno che anche il proprio padre era morto giovane perché distrutto dalla consapevolezza delle azioni del genitore. Werner non riesce a capire questa cieca obbedienza agli ordini superiori “Se fossi stato al tuo posto, penso, o perlomeno spero, che a ogni tappa avrei domandato e mi sarei domandato: perché? Perché le minacce? Perché la repressione? Perché le prigioni? Perché i massacri? Ma non ero al tuo posto”. Werner accusa il vecchio di aver rovinato le generazioni successive che non possono non portare il fardello di questa sofferenza. Il nonno è sconvolto dalla rabbia del nipote, capisce che niente di quello che ha fatto e in cui ha creduto ha senso se non è riuscito a trasmetter a figli e nipoti il valore delle sue azioni e quando i due si separano si suicida. Ecco dunque chiarita l’ambigua formula scelta da Sonderberg di fronte ai giudici.
La parte più ampia del romanzo è dedicata al lungo percorso che Yedidyah fa nel suo passato dopo aver partecipato al processo contro Sonderberg. Egli ripercorre tutta la sua vita portando a galla un passato difficile e doloroso, che aveva cercato di rimuovere. I genitori lo avevano abbandonato quando era piccolo per cercare di salvarlo dalla furia nazista ed egli era sopravvissuto solo grazie all’aiuto di persone generose ed era poi cresciuto in una famiglia adottiva salvandosi negli Stati Uniti.
Percorso didattico
Romanzo complesso sia per i piani narrativi spesso intrecciati, sia per le tematiche affrontate Le due facce dell’innocente è tuttavia un esempio assai interessante di come si può riflettere sulla Shoah nelle seconde e terze generazioni. Un percorso interessante può metterlo a confronto con Music Box (L) in cui la figlia si confronta con le colpe del padre per ragionare sulla difficoltà delle seconde generazioni sia dei colpevoli che delle vittime.
Un altro percorso possibile è quello relativo all’itinerario creativo di Wiesel, dopo La notte (L) uno dei testi più noti e letti sulla Shoah, l’autore ritorna molti anni dopo sullo stesso tema, ma in modo assai più mediato e all’interno di una cornice romanzesca e non più strettamente autobiografica.
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Kathy Kacer, Un posto sicuro, Giunti Junior, 2009
da 8 anni
Edith vive a Vienna con i genitori e la sorella maggiore, Therese. A partire dal marzo del 1938, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, la tranquilla vita quotidiana, per lei come per tutte le altre famiglie di origine ebraica, diventa molto più angosciante: “Ogni giorno di più la paura si insinuava nella sua vita. Per quanto fosse giovane, vivendo a Vienna nel 1938 non poteva non accorgersi che l’Austria era diventata un luogo pericoloso”. Agli ebrei viene vietato di lavorare, di andare a scuola, di frequentare i luoghi pubblici. Un giorno Edith e il padre sfuggono all’arresto soltanto perché il poliziotto riconosce il padre, noto giocatore di calcio. Nonostante le esitazioni della mamma il papà non ha dubbi: è necessario lasciare subito l’Austria in cerca di un luogo sicuro e la famiglia si trasferisce in Belgio dove riesce a condurre una vita abbastanza serena: le bambine vanno a scuola, nasce un fratellino, Gaston, e il papà trova lavoro come fotografo. Dopo lo scoppio della guerra e l’occupazione nazista del Belgio la famiglia di Edith è costretta ad una nuova fuga e si stabilisce nel sud della Francia. Un notte, improvvisamente, il papà viene arrestato e di lui non si hanno più notizie. La madre di Edith, non riuscendo a mantenere i tre figli, decide di mandare lei e il fratellino in un collegio a Moissac gestito dagli Scout ebrei francesi. “A Edith girava la testa. Non voleva scappare di nuovo. Voleva restare in un posto con la sua famiglia. Era assurdo dover fuggire sempre solo perché erano ebrei”. Ma la mamma non cede ai pianti della figlia e nonostante lo strazio porta lei e Gaston a Moissac dove i coniugi Shatta e Bouli accolgono bambini ebrei provenienti da molte parti d’Europa dando loro aiuto e protezione.
Edith scopre presto che molti dei ragazzi che sono lì, a cominciare da Sarah che diventa presto la sua amica del cuore, vivono una situazione di incertezza anche peggiore della sua, poiché non hanno notizie di entrambi i genitori da mesi o sanno che sono stati deportati in Polonia dove, a quanto si dice, gli ebrei vengono imprigionati e spesso uccisi. Edith trascorre qui tre mesi intensi, imparando il valore dell’amicizia e della solidarietà, consapevole che non solo gli ebrei in mezzo ai quali vive sono solidali fra loro, ma quasi tutti gli abitanti cercano di aiutare i ragazzi. Ogni volta che si annuncia una retata dei nazisti infatti lo stesso sindaco manda qualcuno a dare informazioni e i ragazzi partono per qualche giorno fingendo di fare un’escursione fino a che non giunge la notizia che l’allarme è rientrato.
Ma la situazione peggiora, le retate e gli arresti dei nazisti sono sempre più frequenti e nell’agosto del 1943 la Casa di Moissac deve chiudere. I ragazzi sono costretti a cercare altrove un posto sicuro e grazie all’aiuto di Shatta Edith e Sarah possono restare unite, ma devono cambiare nome, fingere di essere cattoliche, ed andare in un collegio tacendo la loro identità. Sono mesi dolorosi e difficili per l’isolamento di cui soffrono. Nei mesi successivi però i bombardamenti sempre più frequenti rendono necessaria la chiusura anche del collegio, Sarah e Edith vengono separate e quest’ultima trova rifugio presso una casa di contadini che la terranno con loro, con affetto e umanità, fino alla fine della guerra in Francia. Appena il paese è liberato la ragazza torna a Moissac e ritrova anche Sarah e Gaston. Finita la guerra in Europa la madre torna a prendere Edith e Gaston e la famiglia finalmente si riunisce. Poche settimane dopo però giunge la notizia che il padre è morto ad Auschwitz e tutte le speranze che l’incubo sia davvero finito si infrangono. Edith si rende conto che la madre è distrutta dal dolore e spontaneamente decide di tornare a Moissac con il fratello per aiutare tutti coloro che avevano bisogno e rimane lì fino al 1949 anno in cui si stabilisce a Parigi e gestisce una casa per bambini ebrei rimasti orfani.
Percorso didattico
Una storia vera raccontata con delicatezza e umanità che può essere letta insieme a molte altre vicende di bambini in fuga: Quando Hitler rubò il coniglietto rosa (L), La stella di Esther (L), L’isola in via degli uccelli (L), Una bambina e basta, (L). Per bambini un po’ più grandi, dalla prima media, si può pensare anche ad un confronto con Un sacchetto di biglie (L). L’importante è che i confronti tengano sempre presente le specificità storiche delle vicende narrate e al contempo mettano anche in luce la comune necessità di trovare appunto “un posto sicuro” per sfuggire ad un progetto di distruzione che era totalitario
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Klaartje de Zwarte-Walvish, Tutto è in frantumi. 1943 Diario di un’ebrea olandese, Guanda, 2012
da 14 anni
Klaartje comincia a scrivere questo eccezionale documento il giorno in cui viene arrestata nella sua
casa di Amsterdam, il 25 marzo 1943, e deportata, dopo pochi giorni nel teatro ebraico della città, punto di raccolta e smistamento, nel campo di Vught.
Non si tratta di un diario vero e proprio perché spesso vi sono anticipazioni e flash back, ma di una narrazione che segue comunque un andamento cronologico e la cui ultima data indicata è quella del 4 luglio 1943, giorno dell’arrivo nel campo di Westerbork, da cui Klaartje sarebbe stata dopo pochi giorni deportata a Sobibor e qui subito uccisa all’arrivo.
L’arresto non è inatteso, il bagaglio, scrive l’autrice, era pronto da otto mesi e si sapeva bene che ormai ad Amsterdam vi erano retate ad ogni ora del giorno e della notte. Lei e il marito vengono portati al teatro ebraico insieme ad altre centinaia di persone e lì i membri del consiglio ebraico parlano del campo di Vught come di un luogo quasi paradisiaco in confronto ad altri. Le annotazioni di Klaartje in questi primi giorni hanno toni altalenanti: in certi momenti prevale lo sconforto assoluto: “Eravamo tutti vittime dello stesso destino e nessuno poteva fare nulla. Eravamo tutti condannati, perché avevamo il marchio di ebrei”; in altri momenti vi è un’accettazione quasi eroica della situazione: “A quel punto ho capito che tornare in libertà era ormai impossibile e mi è parso meglio cercare di accettare, per quanto potevo, il mio destino”.
Dopo dodici giorni nel teatro parte il convoglio che li porterà a Vught ma il processo di disumanizzazione delle vittime era già cominciato nel corso di quei giorni di angoscia e promiscuità forzata: “Mio marito, che in quei dodici giorni si era cambiato una volta sola e dormiva ovunque potesse, non si sentiva più un essere umano. Si fa presto a degenerare in quelle condizioni”.
Arrivati a Vught gli uomini vengono separati dalle donne e comincia una quotidianità fatta di fame, sporcizia, mancanza di spazio, sofferenza. Molte sono le persone che Klaartje conosce e che rincontra nel campo. Si riesce ancora in qualche misura ad avere notizie di quello che succede nel mondo esterno, ogni nuovo convoglio che arriva porta nuovi deportati che danno notizie di amici e parenti.
Scrivere diventa per la giovane donna fondamentale, un contributo perché il mondo possa un giorno sapere l’orrore di cui gli uomini sono capaci. “Spero ardentemente che quanto ho scritto qui un giorno raggiunga il mondo esterno. Non per fare propaganda, ma per mettere al corrente quelli che non sanno cosa succede qui dentro (e sono ancora in tanti)”. Non sempre è facile trovare il momento e la pace necessari per scrivere in una situazione di continuo caos e promiscuità, ma è fondamentale riuscire a farlo: “ma continuerò a scrivere comunque anche a costo di dover sacrificare un paio d’ore ogni notte”. La vita quotidiana è scandita dagli appelli, dalle retate delle persone che vengono deportate a Westerbork che, non vi è dubbio alcuno, equivale alla morte. La disperazione e lo sconforto convivono con relazioni ancora umane con le compagne di prigionia, con momenti quasi sereni di chiacchiere e di risate. L’indifferenza a qualsiasi sofferenza sembra il solo modo per riuscire ad andare avanti: “Lasciamo che le cose vadano come devono andare e diventiamo ogni giorno più indifferenti. Alla lunga ci si abitua a tutto”. Nonostante l’importanza della scrittura come arma di denuncia, Klaartje è consapevole che la situazione che sta raccontando è incomprensibile per chi non l’ha vissuta in prima persona: “Esagero se dico che nulla di quanto scrivo rende l’idea, neanche lontanamente. Solo chi ha vissuto di persona questa sofferenza riuscirà a capire”.
In maggio il marito viene deportato nel campo di Moerdijk, distaccamento esterno del campo di Vught dove gli uomini erano costretti a scavare canali. I coniugi riescono ancora a comunicare con qualche bigliettino e per Klaartje è motivo di grande angoscia la fame di cui il marito soffre senza tregua. Quando è chiaro che dovrà partire per Westerbork la giovane donna è straziata soprattutto dall’idea di non poter rivedere il marito, dal dover affrontare questa nuova terribile tappa della sua vita da sola.
Il 4 luglio, l’ultima volta che Klaartje scrive, racconta del viaggio terribile verso Westerbok, della perquisizione all’arrivo e del terrore che i suoi appunti venissero scoperti.
Percorso didattico
Documento bellissimo e straziante queste pagine costituiscono una rara occasione di un racconto così diretto della realtà concentrazionaria. Il diario, che Klaartje consegnò al cognato poco prima di salire sul treno per Sobibor, è arrivato a noi in modo assolutamente fortunoso, conservato per anni dalla nipote e consegnato poi al museo ebraico di Amsterdam. Interessante anche l’introduzione dei curatori in cui si racconta la difficile e lunga ricerca per capire chi fosse l’autrice del diario di cui in quelle pagine non vi era neanche il nome.
Il diario può essere letto come la prosecuzione ideale di quello di Anne Frank poiché comincia dove l’altro finisce, cioè con l’arresto. Un percorso certamente complesso può mettere a confronto questa testimonianza con Se questo è un uomo (L), La notte (L), e Ricordi della casa dei morti (L); sempre però mettendo con chiarezza in luce che si tratta di realtà concentrazionarie profondamente diverse e che dunque se innumerevoli sono le analogie, profonde sono anche le differenze fra un piccolo campo di transito olandese ed Auschwitz.
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Eric Heuvel, Ruud van der Roi, Lies Schipper, La stella di Esther, De Agostini, 2009
da 9 anni
La storia, raccontata a fumetti, ha inizio quando Esther, una anziana signora sopravvissuta alla Shoah e stabilitasi negli Stati Uniti, torna in Olanda in occasione del Bar Mitzvah (maggiorità religiosa ebraica) del nipote e decide di andare a trovare - insieme al figlio, al nipote e all’amica di infanzia Helena - la famiglia che l’aveva tenuta nascosta per qualche mese durante la seconda guerra mondiale. Ha inizio così il racconto a ritroso della sua dolorosa vicenda incalzata dalle domande curiose del nipote. Esther viveva in Germania con i genitori, ma dopo la presa del potere di Hitler la vita diventa sempre più difficile: il padre medico non può più lavorare per i non ebrei, l’amico del cuore Fritz, figlio di un nazista convinto, non può più giocare con lei. I genitori decidono di cercare di scappare e riescono a raggiungere l’Olanda dove fino allo scoppio della guerra trascorrono anni relativamente tranquilli. Dopo l’occupazione nazista la situazione precipita velocemente e i genitori di Esther si rendono conto che è necessario nascondersi nuovamente, ma una mattina mentre la bambina è a scuola, vengono portati via. Il poliziotto che li ha arrestati racconta a Esther l’accaduto facendole scegliere se vuole seguirli o scappare; dopo lunga esitazione la ragazza decide di cercare di salvarsi e va da un amico del padre che la mette in contatto con la Resistenza olandese. Una donna si prende cura di lei, le dà documenti falsi e la fa nascondere in una fattoria dove viveva allora appunto Barend, la persona che Esther va a trovare all’inizio del racconto. Resta lì sei mesi ma poi nel corso di una retata nazista scappa e vivrà ancora vari mesi cercando ogni giorno un modo di sopravvivere e ospitata poi da contadini fino alla fine della guerra che fingono lei sia una nipote.
Tornata ad Amsterdam, Esther cerca disperatamente notizie dei suoi genitori, ma nessuno sa niente fino a che un amico di infanzia, Bob, sopravvissuto ad Auschwitz, va a cercarla per raccontarle che i genitori sono entrambi morti. Il dolore è troppo grande, la ragazza non riesce a chiedere niente, Bob se ne va e con lui la possibilità di conoscere qualcosa di più sugli ultimi mesi di vita dei suoi cari.
Il nipote di Esther che ha seguito con passione e dolore la storia della nonna tenta allora di recuperare Bob cercando notizie in internet e finalmente riesce a mettersi in contatto con lui. Ester decide di andarlo a trovare in Israele e quando torna in Olanda racconta ancora una volta al nipote e all’amica Helena questo straziante ma importantissimo viaggio: dopo l’iniziale fatica per affrontare un tema così doloroso si fa raccontare cosa è successo dal momento dell’arresto in poi. Bob ripercorre con ricchezza di particolari la deportazione a Westerbork, poi il viaggio verso Auschwitz dove la madre viene uccisa subito all’arrivo, mentre il padre sopravvive fino all’evacuazione forzata del campo all’avvicinarsi dell’armata rossa e, solo allora, muore di stenti. Nel raccontare tutto ciò che ha saputo da Bob, Esther non soffre solo per ciò che i genitori hanno dovuto subire, ma anche perché si rende conto di essersi quasi completamente dimenticata i loro volti. Helene si ricorda allora improvvisamente che quasi mezzo secolo prima, subito dopo l’arresto dei genitori dell’amica, era andata nella loro casa cercando di portare via oggetti importanti prima che finissero nelle mani dei nazisti. Rovistando in solaio riesce così a recuperare un album di fotografie di famiglia; per Esther un dono inaspettato e un legame fondamentale con il passato per dare nuovamente un volto a un legame che vive ormai solo nel ricordo.
Il ritrovamento di questo album di foto può parere un po’ fortunoso, ma è un elemento importante di fiducia per i giovani lettori per cui questo libro è pensato e fa sì che la narrazione si concluda in modo in qualche misura rasserenante.
Percorso didattico
Una graphic novel pensata e scritta dalla Fondazione Anne Frank di Amsterdam per avvicinare anche i più giovani alla complessa vicenda della persecuzione degli ebrei. Anche qui come in Maus (L) la scelta di raccontare una storia a fumetti nulla toglie alla serietà della narrazione storica. Attraverso il racconto in prima persona di Esther e soprattutto grazie alla testimonianza di Bob i giovani lettori vengono a conoscenza della presa del potere nazista, delle difficoltà crescenti degli ebrei e della terribile realtà quotidiana ad Auschwitz. Sono anche tratteggiate le responsabilità e le connivenze di chi ha denunciato, non ha offerto aiuto, ha effettuato gli arresti come il coraggio di chi invece ha rischiato la vita pur di aiutare Esther e i suoi parenti.
Il libro può essere confrontato con altri che parlano dei bambini durante la persecuzione nazista come Una bambina e basta (L), L’isola in via degli Uccelli (L), Quando Hitler rubò il coniglietto rosa.(L) , Un posto sicuro (L).
Un percorso più complesso di riflessione, da fare con ragazzi dalla terza media in su, riguarda il dolore e la fatica di chi è sopravvissuto, il rapporto con quel passato terribile che non può più passare e anche la fatica della seconda generazione, tale tema emerge ad esempio in Maus (L) e nella figura di Hannah nel film Rosenstrasse.
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Judith Kerr, Quando Hitler rubò il coniglio rosa, Rizzoli, 2008
da 9 anni
E’ il racconto dell’ascesa al potere del nazismo nella Germania degli anni trenta dal punto di vista di una bambina ebrea berlinese. Nel 1933 Anna ha nove anni, suo fratello Max dodici. Il padre, scrittore e giornalista antinazista, sgradito al regime, è in pericolo e decide di partire per la Svizzera, dove presto è raggiunto dalla famiglia.
Ha inizio così il tempo dell’esilio, causato dalle persecuzioni antisemite.
Quell’anno Hitler vince le elezioni, i nazisti confiscano i beni degli ebrei e arrivano a bruciare i libri dei loro oppositori: insieme a quelli di autori famosi come Einstein e Freud ci sono anche quelli scritti dal padre di Anna. Alcuni loro amici vengono imprigionati, altri riescono a fuggire, c’è chi invece cede al compromesso scrivendo a favore del nuovo regime. Sono alcune delle notizie portate dallo zio Julius, un vecchio amico della famiglia, che li va a trovare. Il dolore di Anna si sostanzia in un’immagine: il suo amato coniglio rosa coccolato dall’odiato Hitler!
Intanto la famiglia fa il possibile per ambientarsi nella nuova situazione. Alla riapertura delle scuole, Max frequenta le superiori a Zurigo mentre Anna la scuola del villaggio dove vivono. Col tempo i bambini imparano a conoscere i costumi del posto, anche i più strani: ad esempio l’usanza da parte dei ragazzi che prendono una cotta per una ragazza di colpirla con mele o scarpe o altri oggetti!
Ma si presentano nuove difficoltà e, nel giorno del decimo compleanno, il padre annuncia ad Anna che, visto il rifiuto a pubblicare i suoi articoli per paura delle ire dei nazisti oltre confine, sta pensando a un trasferimento a Parigi. Anna non sembra eccessivamente turbata da questo progetto: “Le pareva bello e avventuroso essere una profuga, non avere una casa e non sapere dove andare ad abitare.”
In un primo tempo i genitori vanno a Parigi in esplorazione, poi decidono di stabilirsi lì con i figli. Intanto Anna viene a conoscenza delle prime notizie sui campi di concentramento; poi di una taglia messa dai nazisti sulla testa di suo padre.
Segue l’inserimento nella realtà parigina, più faticoso per i due ragazzi. Il padre di Anna è stanco, la notte soffre di un incubo ricorrente: cerca di scappare dalla Germania e alla frontiera viene fermato dai nazisti. Allora si sveglia urlando. Ma col tempo Anna e Max si ambientano e arrivano a considerare Parigi la propria casa. Intanto siamo al 1935. La crisi economica, che colpisce tutti, si fa sentire anche in casa loro. Per sbarcare il lunario il padre di Anna scrive la sua prima sceneggiatura per il cinema che, rifiutata dai francesi, viene poi accolta da un produttore ungherese che lavora in Inghilterra. Questo spinge la famiglia al nuovo trasferimento. E qui si chiude la storia, che intuiamo essere molto vicina alla biografia dell’autrice.
E’ un libro che racconta una storia difficile e dolorosa affrontata con coraggio e con fiducia, pur se con momenti di vero sgomento. Aiuta a capire cosa vuol dire essere costretti ad abbandonare il proprio paese, sentirsi rifiutati e minacciati, essere accolti o meno, confrontarsi con elementi culturali diversi, primo tra tutti la lingua. In questo senso lo vedo un ponte con la storia attuale di tanti bambini e famiglie che cercano in Italia una possibilità di vita.
Indicato per ragazzi un po’ più grandi è La stagione delle bombe che rappresenta il seguito del testo precedente. Qui la famiglia è a Londra, negli anni della guerra. Crede di essere in salvo ma le cose non sono così semplici. I tedeschi sono guardati con sospetto, riorganizzarsi è molto difficile. Anna trova una risorsa importante nella sua passione per il disegno, talento insospettato, e vive il suo primo amore. Tornerà a Berlino, distrutta dalla guerra, alla ricerca delle sue radici.
Percorso didattico
Il tema dell’emigrazione, delle difficoltà legate ad un nuovo paese in cui vivere sono al centro di molti dei libri pensati per i più giovani: La stella di Esther (L), Un posto sicuro (L), Un sacchetto di biglie (L).
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Robert Muller, Il mondo quell’estate, Mondadori, 2012
da 11 anni
Il protagonista di questo romanzo è Hannes, un ragazzino dodicenne che vive ad Amburgo. E’ l’estate del 1936 e Hannes come molti tedeschi segue con passione le olimpiadi che si stanno svolgendo a Berlino; occasione fra l’altro per il regime nazista di dimostrare al mondo intero le grandi virtù del popolo tedesco del Terzo Reich, popolo – come ripete ossessivamente la propaganda – formato da soli membri della “razza” ariana.
Hannes nasconde però un terribile segreto: ha una nonna ebrea di cui nessuno deve sapere niente. Il padre ha già perso il lavoro di giornalista per aver sposato una donna figlia di madre ebrea; la mamma passa le giornate a piangere senza fare niente, non assomiglia assolutamente più alla donna giovane, allegra e bella che Hannes ricorda nei suoi anni di infanzia. La scuola che frequenta lo ha accettato per un tacito accordo fra il padre e il direttore, ma il ragazzo sa bene che la sua situazione è assai delicata e che non può permettersi la minima disattenzione, anche un ritardo o una banale lite fra compagni possono costargli l’espulsione.
“Non correre rischi. Pensa sempre prima di parlare. Non ti scordare quanto sono astuti. Non riferire mai nulla di ciò che senti dire in casa. Non diventare mai troppo amico di nessuno. Nella nostra posizione non possiamo permetterci di avere amici”; queste parole della madre risuonano sempre nelle orecchie di Hannes che vive in mezzo ad un gruppo di ragazzi fanatici seguaci di Hitler e membri convinti della Hitler Jugend. Soprattutto il leader del gruppo, Rolf, è un antisemita convinto e nelle lunghe giornate dell’estate, in cui c’è ben poco da fare, spinge gli altri ad azioni violente contro i negozi ebrei e passa il tempo ad insultare tutti coloro che non sono convinti sostenitori del Führer. Hannes vive perennemente combattuto fra il desiderio di essere uguale agli altri, di nascondere le sue origini e il forte legame che lo lega alla nonna Rosa. Tutti i venerdì, dopo essersi assicurato che nessuno lo veda, va a trovare la nonna e con lei passa momenti molto sereni e piacevoli anche se è sempre più chiaro che le cose stanno cambiando, non solo perché lui sta crescendo e il mondo dell’infanzia è irrimediabilmente perso, ma anche perché la situazione intorno a loro diventa sempre più complessa: “Sono decisi a prenderci tutto – disse poi Rosa – Tutto, un pezzetto per volta, tra non molto ci faranno indossare la stella gialla e ci sputeranno addosso quando cammineremo per strada. Se tu avessi conosciuto questo mondo quando era giovane tua madre…” A casa di Rosa si è inoltre ormai stanziato un rozzo membro delle Sa, Bohrer, che ricatta la donna imponendole la sua “protezione” perché lei possa portare avanti la sua attività di fisioterapista. Hannes non sopporta la volgarità di quest’uomo, sempre più invadente, ma sa anche che non può fare niente contro di lui. Egli soffre sempre di più per la situazione quotidiana, si sente lontano dai suoi genitori, ma anche dai compagni nonostante che continui a partecipare a tutte le attività del gruppo e ambisca più di ogni altra cosa ad avere il pugnale della Hitler Jugend, simbolo per lui di perfetta integrazione nella maggioranza.
A casa intanto il clima è sempre più teso e difficile, il padre viene arrestato e poi rilasciato e dopo poche settimane viene arrestata anche la sorella Erika, accusata di stare con un comunista e dunque, in qualche misura, di tramare contro il regime. In questo susseguirsi di episodi dolorosi il tragico culmine è costituito dal suicidio dell’amata nonna che non riesce a reggere la sofferenza e l’umiliazione.
Percorso didattico
La vicenda di Hannes, i suoi dubbi e i suoi contradditori sentimenti, ben mettono in luce l’avanzare dell’antisemitismo nella Germania hitleriana e il fascino che il nuovo regime esercita su molti giovani, aspetti entrambi fondamentali per capire le premesse di quello che è successo dopo. Troppo spesso la Shoah appare come un atto improvviso e proprio per questo poco spiegabile e comprensibile; ripercorrerne dunque le premesse storiche e ideologiche è una tappa fondamentale in ogni percorso didattico.
Il libro può essere messo a confronto con altre vicende ambientate nella Germania nazista prima dello scoppio della guerra proprio per mettere in luce la progressiva erosione dei diritti degli ebrei: L’amico ritrovato (L+F), Stelle di cannella (L) oppure si può leggere il libro insieme ad Ausländer (L) per mettere a confronto due diverse esistenze di ragazzi “impuri” nella Germania nazista.
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Teresa Buongiorno, Io e Sara, Roma 1944, Piemme 2003
Da 9 anni
La storia ha inizio nel 1936, tempo di italianità e di amicizia con i tedeschi. Isabella, 6 anni, e suo fratello Gianni vivono agiatamente in una villa di campagna a Roma. E' l'anno del suo ingresso alla scuola elementare e i genitori scelgono di mandarla dalle suore spagnole, loro confinanti di casa. Ma, visto che andare a scuola implica partecipare alle adunate del sabato fascista, i genitori ritirano Isabella, pur costretti a cedere alla richiesta della bambina di avere la sua divisa da Piccola Italiana. Intanto Gianni, cui invece è consentito frequentare la scuola, fa amicizia con un bambino ebreo, Marco Palon, fratello di Sara, che diventa presto amica di Isabella. Non è facile per Isa accettare lo studio a casa, tanto che un giorno decide di scavalcare la rete per provare a mescolarsi alle alunne di una classe, sperando di passare inosservata! La sua intraprendenza raggiunge l'obiettivo di farla rientrare a scuola, che risulta per Isa "il primo passo verso la libertà".
Nel 1938 le leggi razziali. Alla cugina Minerva, insegnante vincitrice di concorso, viene negata la possibilità di lavorare, per cui decide di emigrare in America. Isa teme allora per gli amici Palon, ma scopre che sono "ebrei a metà", anzi quasi per intero, perché il padre è cattolico e le donne di famiglia si sono battezzate.
Intanto la Storia incalza e Isabella racconta e commenta i fatti che vive o di cui viene a conoscenza: la morte del Papa Pio XI nel 1939, l'annuncio dell'entrata in guerra dell'Italia, le adunate oceaniche, l'impegno chiesto anche ai bambini nelle scuole per confezionare pettorine e solette per i soldati impegnati sul fronte greco, l'allarme delle sirene cui seguono le corse nel rifugio costruito dal babbo, messo a disposizione anche delle suore vicine, il razionamento dei cibi e la borsa nera. Ormai i ragazzi sembrano "abituati" alla guerra, fino al giorno in cui la guerra arriva in casa. Roma è bombardata. La sera c'è il coprifuoco, manca la luce elettrica e ai termosifoni spenti sopperisce il fuoco nei caminetti, per chi li ha. Siamo al 1943, la Repubblica Sociale Italiana, Roma occupata dai tedeschi "non più da amici, però." In ottobre a scuola Isa ha la sorpresa di trovare Sara Palon tra le compagne. Suo fratello Marco è nascosto in seminario, la madre è in un posto segreto col figlio più piccolo e il padre si sposta da un nascondiglio a un altro.
Anche il padre di Isabella ha i suoi problemi perché perde il lavoro, ma fortunatamente ci sono le rendite dei beni del nonno ad assicurare la sopravvivenza la famiglia.
Siamo allo sbarco ad Anzio degli americani, i tedeschi che battono in ritirata, i ponti minati, la paura di saltar tutti per aria. E invece no, Roma è liberata e ovunque si festeggia, pur sapendo che la guerra non è ancora finita.
Quando Isa rientra a scuola, non trova più Sara. La raggiunge a casa e il rapporto tra le due ragazze riprende come sempre.
Nel Congedo l'autrice avverte i lettori che le cose raccontate sono tutte accadute davvero, anche se non si tratta di autobiografia.
In appendice: 1935-1945: i dieci anni che sconvolsero l'Italia di Luciano Tas.
Percorso didattico
Questo libro ha il grande pregio di raccontare in modo semplice, e spesso divertente, la storia italiana di quegli anni come può averla vissuta e capita una bambina come Isabella, figlia di genitori benestanti ma molto critici verso il fascismo e aperti agli altri, senza pregiudizi. E' interessante far riflettere i bambini su quanto quel contesto storico e culturale gravava sulle vite di tutti gli antifascisti, non solo degli ebrei. Un percorso possibile mette a confronto la realtà vissuta da tanti bambini durante la Shoah Una bambina e basta, La chiave di Sarah, L'isola in via degli uccelli, Stelle di cannella. (Anna Sarfatti)
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Uri Olev, L'isola in via degli uccelli, Salani 2009
da 9 anni
1942, ghetto di Varsavia: Alex, il protagonista undicenne, abita lì con i suoi. Ma un giorno la madre non torna a casa e il padre capisce che è stata deportata in Germania. E' possibile un arresto imminente per tutti gli abitanti del ghetto e il padre fa di tutto per preparare Alex ad affrontare da solo tempi durissimi, promettendogli però che qualunque cosa accada tornerà a cercarlo. Al momento della cattura, con l'aiuto del vecchio amico Boruch, riesce a far fuggire il figlio, che si nasconde con il suo amato topolino bianco, Neve, nella cantina della casa diroccata al numero 78 di via degli Uccelli, luogo amato dai bambini del ghetto per i loro giochi. Qui inizia l'avventura per la sopravvivenza di Alex che, come suggerisce Orlev, sembra trasformarsi in un piccolo Robinson Crusoe. Dalla cantina si sposta in un rifugio ricavato ad un piano alto, raggiungibile solo con una scala di corda, dove trascorrerà i mesi che lo aspettano, collegato al mondo esterno (il settore polacco oltre il muro del ghetto) da una finestrella da cui può vedere senza essere visto. Sono mesi densi di eventi: i più angosciosi le ripetute incursioni dei soldati tedeschi. Ma c'è anche l'amicizia, che poi si trasforma in amore, con Stashya, la bambina della casa di fronte, anche lei ebrea, che purtroppo si dovrà interrompere quando Stashya e sua madre saranno costrette a cambiare casa. Altro momento topico della storia sarà l'incontro con due ebrei, uno dei quali ferito, inseguiti dai tedeschi. Alex li ospita nel suo rifugio e riesce a ottenere l'aiuto di un dottore che abita nel settore polacco che opera il ferito nel rifugio di Alex e insegna al ragazzo come assisterlo. Il ferito guarisce e grazie all'aiuto di Alex esce dal ghetto, mentre il dottore viene prelevato dalla Gestapo. Gli ultimi mesi nel rifugio sono i più duri ma, quando ormai sembra aver perso ogni speranza, un giorno Alex riconosce nella voce che sente salire dal piano terra, quella del padre. Insieme aspettano il partigiano Bolek che li condurrà in salvo.
E' un testo molto avvincente per l'intraprendenza del protagonista che vive una storia ai limiti del possibile. Commuovono la fiducia e l'amore che legano Alex al padre, la cui promessa di tornare diviene per il ragazzo motivo di resistenza. Anche per il lettore bambino il ritorno del padre è importante per costruire speranze in mezzo a tanta distruzione.
Percorso didattico
Il ghetto, come tappa fondamentale di disumanizzazione e abbrutimento prima della deportazione per tanta parte degli ebrei dell'est resta una realtà ancora poco conosciuta e poco raccontata e il libro di Olev ha il pregio di farne capire le caratteristiche fondamentali.
Il percorso può essere incentrato sulla realtà del ghetto, mettendo a confronto questo libro con Maus (L), o con un libro ed un film come Il pianista adatto però a ragazzi più grandi.
Un'altra possibilità è quella di mettere a confronto realtà diverse di bambini ebrei durante la persecuzione con un'attenzione alla realtà geografica: l'Italia di Una bambina e basta, la Francia di Arrivederci ragazzi (F) e Un posto sicuro, la Germania di Stelle di cannella, l'Olanda de La chiave di Sara. (Anna Sarfatti)
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Lia Levi, La notte dell'oblio, edizioni e/o 2012
da 13 anni
Elsa con il marito Giacomo e le figlie adolescenti Dora e Milena, riesce a fuggire alle retate dei nazisti a Roma nell'ottobre del 1943 e a trovare rifugio nella campagna laziale presso don Gioacchino, vecchio e fraterno amico del suocero che accetta di ospitare la famiglia a patto che tutti si fingano parenti cattolici fuggiti dai bombardamenti. Passano così lunghi mesi, fra l'ansia per le notizie che si susseguono contraddittorie e la paura di essere scoperti. Giacomo, proprietario di un negozio a Roma, ogni tanto torna in città per prendere accordi con Italo, il commesso cui ha affidato l'attività, recuperare un po' di soldi e nei limiti del possibile tenere la situazione sotto controllo. Un giorno però non fa ritorno e alla moglie che lo aspetta tutta la notte alla fermata della corriera giungono notizie vaghe sul suo tragico destino.
Passano i mesi, la guerra finisce, Elsa e le figlie tornano a Roma ma di Giacomo non vi è alcuna notizia. Elsa comincia così a riorganizzare in un dolore muto e profondo la nuova vita, cercando di lavorare per permettere alle figlie di studiare e senza mai fare cenno all'accaduto, stendendo un fitto velo di silenzio anche con le ragazze quasi a voler fingere che niente fosse successo. Inizia un'attività piuttosto fortunata di sarta e le ragazze riprendono una vita "normale" fra studi, amicizie e i rapporti sempre vivaci e intensi con il cugino profondamente sionista e la famiglia dello zio. "Lei aveva voluto strappare le figlie dal loro passato, e certo lo voleva ancora, avrebbe continuato a lottare con le unghie perché a loro non venisse a mancare niente. Ma il fatto che la sua scelta di silenzio si fosse venuta a immergere nel silenzio di tutti le suonava ora quasi blasfema. Nessuno parlava, nessuno chiedeva, nessuno raccontava. Gli echi della tragedia ebraica non dovevano arrivare a una società che già faticava a ricostruirsi".
Gli anni passano, Milena si sposa e si fa una vita, mentre Dora, più inquieta e insoddisfatta, continua a vivere con la madre fino a che non si innamora di Fabrizio. Per una tragica ironia del destino Dora scopre che il padre di Fabrizio è quell'Italo che era commesso nel negozio del padre, e grazie alla testimonianza di un'altra impiegata - che subito aveva detto di aver qualcosa da raccontare ma che la madre non aveva mai voluto ascoltare - viene a sapere che era stato proprio Italo a denunciare il padre e a farlo arrestare. La cappa di silenzio che Elsa aveva imposto viene così violentemente squarciata, dimostrando l'impossibilità di ricomporre il presente - Dora e Fabrizio si lasceranno - ma anche di rimuovere il passato " aveva mormorato Dora ".
Percorso
Come molti dei libri pubblicati in questi ultimi anni, questo romanzo, più che una storia della persecuzione razziale, si concentra sul "dopo", sulla difficoltà di convivere con quel passato doloroso e difficile. L'Italia della ricostruzione che vuole dimenticare, che tace sulle proprie corresponsabilità, tutta tesa nello sforzo di andare avanti è descritta con grande intelligenza. Il percorso più interessante è quello che mette a confronto questo libro con altri che affrontano tematiche analoghe, come Le due facce dell'innocente (L) o Music box (F).
Un altro percorso interessante può essere relativo all'itinerario creativo di Lia Levi, che ha dedicato molti libri a questo tema ed è passata, con gli anni, dalla narrazione della persecuzione a quella delle sue conseguenze di più lungo periodo: Una bambina e basta (L); L'amore mio non può (L). (Alessandra Minerbi)
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Shoah in Italia. Strumenti per la didattica
Documenti e risorse sulla Shoah in Italia
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collega allegato
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